The Project Gutenberg eBook of La vita nell'esercito b5rz

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Title: La vita nell'esercito 324b4d

Novelle militari

Author: Arturo Olivieri Sangiacomo

Release date: May 31, 2025 [eBook #76199]

Language: Italian

Original publication: Milano: Aliprandi, 1895

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA VITA NELL'ESERCITO ***

LA VITA NELL’ESERCITO. 4i2t30


Tenente A. OLIVIERI SANGIACOMO

LA VITA NELL’ESERCITO

Novelle Militari

MILANO
CARLO ALIPRANDI, Editore
Via Stella, Num. 9 10.


Proprietà letteraria dell’Editore Carlo Aliprandi

Milano — Stab. Tip. dell’Edit. Carlo Aliprandi, Via Stella, 9-10.



INDICE


[7]

 
Tenente A. Olivieri Sangiacomo.

[9]

STORIA DI UNA SCIABOLA 4v314n

Nacqui a Toledo in una di quelle storiche fucine che hanno fornito di solide lame tutto il mondo; un fabbro catalano mi martellò, un artefice italiano rabescò la mia lama di fregi bizzarri; rammento ancora la strana sensazione di freddo che mi corse tutta, quando mi gettarono rovente ancora in una tinozza d’acqua gelata. Ho avuto due impugnature; la prima assai semplice in pelle di pescecane e acciaio brunito con tre else; con quella impugnatura mi portò attaccata ad un rozzo cinturone di cuoio di Cordova, il signor di Perédas nella storica guerra di successione del 1808 intorno a Saragozza.

Terribile e gloriosa e patriottica guerra quella, combattuta accanitamente su pe’ selvaggi monti delle Asturie, sulle aspre pendici dei Pirenei, sullo floride pianure del Tago. Molte cose vidi e molte volte scintillai al bel sole di Spagna, incitatrice alle pugne, roteando in fendenti tremendi sugli enormi schakò napoleonici. Ma un giorno [10] il signore di Perédas mi seppellì sotto un mucchio di cadaveri tutta rossa di sangue rappreso.

Di notte alla luce rossiccia delle torce, tra i lamenti dei feriti e dei moribondi e il vociare delle ambulanze, fui raccolta da un contadino e gettata insieme ad altre armi ed indumenti guerreschi in un carretto sgangherato le cui ruote mettevano un sinistro cigolio.

Che notte eterna fu quella! Priva della mia morbida guaina di cuoio, sentivo la fredda rugiada posarsi su di me e agghiacciarmi le fibre; viaggiando, al rude contatto di schioppi arrugginiti e di umili daghe di gregario, pensavo al mio forte signore e mi pareva di sentire ancora la stretta della sua mano robusta. Viveva egli ancora? certo che no; soltanto la morte poteva strapparmi da quel pugno d’acciaio.

Allora qual sorte m’era riserbata?

Viaggiai tutta la notte alla luce chiara, fredda degli astri; tutta la notte giunsero fino a me i fiochi lamenti dei moribondi, il gracchiare de’ corvi famelici; a tratti per la vasta campagna apparivano, in distanza, orrendi bagliori d’incendio, allegri fuochi di bivacco. Di chi era la vittoria? Lo ignoravo, ma qualche cosa mi diceva che doveva essere degli intrepidi difensori della Spagna e questa idea mi consolava della mia inazione, della mia presente miseria. All’alba, il carretto si fermò dinnanzi ad un’umile casa di campagna; due donne giovani e belle, della maschia bellezza catalana, accorsero sul limitare, molti fanciulli circondarono il carretto schiamazzando: due uomini alti e barbuti ci tolsero dal carro, ci trasportarono in una buia soffitta, ci gettarono a rifascio in un angolo. Lunghi anni arono in quel silenzio non interrotto che dalla gazzarra allegra degli uccelli e dal tubare delle tortore nidificanti sugli embrici. Io invecchiavo; uno strato di ruggine mi copriva tutta come una lebbra, mi rodeva le molecole come una vegetazione parassitaria: la polvere s’agglomerava sull’impugnatura [11] rendendola irriconoscibile, i ragni, tra le else, intessevano le loro trame sottili. Gli anni avano....

***

Un giorno la porta stridette sai cardini rugginosi e una larga e luminosa zona di sole penetrò allegramente nella buia soffitta mettendo in fuga una pacifica tribù di topi, assoluti padroni del luogo.

— Debbono essere laggiù in quell’angolo, disse una voce maschia.

Un uomo si diresse alla nostra volta, ci sollevò tutte in un fascio, discese le scale traballando sotto il peso e ci depose sopra il gran tavolo della cucina: dal mucchio delle armi saliva un vecchio tanfo di muffa.

— Eccole qui tutte, disse la voce nota.

Molti uomini ci furono attorno, ci presero, ci spolverarono, ci esaminarono curiosamente. Quello che mi impugnò pel primo era un vecchio signore alto e magro dalle fedine brizzolate, dagli occhiali cerchiati in oro: mi osservò a lungo, cercando di scorgere traverso alla ruggine il disegno dei miei rabeschi, cercando un nome, una data, una marca di fabbrica. Io in quell’aria, in quella luce, mi sentivo rinascere; il buon sole di primavera mi scuoteva di dosso l’umidità e l’uggia di quella lunga prigionia; i movimenti che la mano del vecchio, mi imprimeva, mi rendevano l’antica elasticità, il vigore antico, dandomi sussulti di gioia.

— Buona lama, buona lama!... diceva il vecchio soddisfatto.

— È di Toledo, della celebre fabbrica di Manuel Paëz; ha combattuto sotto Saragozza nel 1808 in mano a quel prode signor di Perédas, che morì poi sulle mura della città, disse l’uomo che mi aveva tolto dal mio cantuccio buio, con un’inflessione d’orgoglio nella voce.

[12]

— Quanto chiedete? domandò il vecchio.

— Non ha prezzo signore; la raccolse mio padre sul campo di battaglia ed io la conservavo come una reliquia di famiglia. Ma siamo poveri, il pane è caro, mia moglie è malata.... Fate voi, signore, io non discuterò.

Il vecchio gettò sulla tavola dieci fiammanti pesos di Spagna, il cui suono argentino dovette gradevolmente solleticare l’orecchio del campagnuolo andaluso.

— Va bene?

— Grazie a Vossignoria: l’arma è vostra, disse il contadino intascando prestamente le belle monete.

Il vecchio signore mi avvolse accuratamente in una fascia di tela e mi portò via.

Così mi separai dalla mie compagne di prigionia....

***

In Italia subii una magnifica trasformazione: un armaiolo di Milano mi si mise d’attorno a ripulirmi, a levarmi la ruggine con una cura amorosa: fui temprata nuovamente; per la seconda volta sentii il bacio ardente del fuoco, il freddo bacio dell’acqua, poi mi si adattò una nuova impugnatura d’avorio colle else in metallo dorato, martellata da una mano maestra. Ero più bella di prima, più lucente, più fiammante; la mia lama s’era assottigliata, la mia punta pareva quella di un’ago.

Un giorno mentre l’armaiolo mi dava l’ultimo colpo di brunitoio, entrò nella bottega una fanciulla, uno splendore di fanciulla, pallida e bruna come la fata di una leggenda moresca. Mi guardò a lungo, mi prese nelle sue manine delicate e bianche, poi mi posò sul banco dicendo all’artefice:

— Inciderete il mio nome sulla lama da questa parte; dall’altra parte il motto: «Per la patria e per la dama»

[13]

— Sarà fatto, disse l’armaiuolo inchinandosi.

Provai così anche il morso roditore dell’acido; ma per guarire fui messa in una guaina di bulgaro morbida ed odorosa come un guanto e adagiata mollemente in un lungo astuccio di velluto. Come si stava bene lì dentro!...

Così trasformata, rinnovata, ringiovanita tornai alla casa del vecchio signore che mi aveva acquistata in Ispagna, anelante a nuove pugne su nuovi campi di battaglia, avida di scintillare al sole italiano, di combattere per una causa nobile e grande. Mi avrebbero forse lasciata poltrire nel mio morbido astuccio?

Una notte fui portata nel salotto; un salotto principesco e sontuoso, dove tutto fiammeggiava alla luce dei lampadari di Murano. C’erano tre persone intorno a me; il vecchio signore dalle fedine brizzolate, la bellissima creatura di cui portavo il nome inciso sulla lama, e un giovane biondo, dall’occhio azzurro e dolce, vestito della splendida uniforme degli Usseri di Piacenza; parlavano sottovoce, commossi, pallidi come alla vigilia di un grande avvenimento: la fanciulla era triste, ma gli sguardi del giovane e del vecchio lucevano di una fiamma baldanzosa.

— Quando parti? domandò Bianca.

— Fra poche ore, all’alba: gli Austriaci sono padroni della linea del Mincio e circondano Peschiera, bisogna affrettarsi....

— Ritornerai non è vero?

— Se Dio m’assiste!...

— Porterai questa spada, per mio ricordo.

E mi trasse dall’astuccio.

— Grazie, cara.

Il giovane la baciò in fronte, poi mi sguainò, mi fece scintillare alla luce dei doppieri, lesse la scritta e pose le labbra sulla lama al posto dov’era inciso il nome di lei. (Un brivido mi corse tutta a quel contatto) poi disse attaccandomi ai pendagli del suo cinturone di bulgaro.

— Questa spada sarà il mio talismano.

[14]

— Iddio t’ascolti!

— Figli miei, seguitemi, disse il vecchio signore con voce grave, velata da una dolce emozione.

Assistei allora ad una scena commovente e solenne. La piccola cappella del palazzo era tutta illuminata di ceri; all’altare sontuoso un prete celebrava la messa. Era un venerando sacerdote, una di quelle maestose figure di vegliardo su cui si legge, come su di uno specchio, tutta la storia di una vita incontaminata; celebrava il sacrifizio divino serenamente, sorridendo ai due fidanzati che si inginocchiavano dinanzi alla balaustra ricoperta di fiori.

Bianca pregava fervorosamente il Signore che le risparmiasse lo sposo, che glie lo fe ritornare illeso e vittorioso; egli, il giovine ufficiale degli usseri, la divorava collo sguardo pregustando tutta la felicità di quella notte divina, la prima e forse l’ultima, del suo matrimonio.

Sui gradini dell’altare il sacerdote parlò rivolto agli sposi colla sua voce tremula e dolce; parlò di amore e di patria, di speranza e di fede, di onore e di dovere: poi alzò la bianca mano benedicente e il vecchio signore baciò sulla fronte la figlia e lo sposo....

In quella notte dalla poltrona dove fui gettata, assistei al più dolce, al più bello, al più divino degli idillii umani e ne fremo ancora al ricordo....

***

Per tutto il giorno avevo battuto sui fianchi di un cavallo generoso che ci portava via in corsa sfrenata; sentivo dietro di me il sonoro galoppo di tutti i cavalli dello squadrone e la polvere di una strada lunghissima stendentesi a perdita di vista, si posava sulla mia impugnatura damascata. Quali pensieri turbinavano nell’animo [15] del mio nuovo padrone? Ancora ebbro di ricordi d’amore egli si eccitava alla corsa, e pungeva i fianchi del suo sauro focoso. Io pensavo che sarebbe triste di morire così, giovane, bello e amato da un angelo; ma più pensavo alle lacrime di lei in quell’ora che vedeva dileguare la sua felicità al galoppo rapido di Mallecho. Povera Bianca! A lungo aveva sventolato il fazzoletto in segno d’addio, in quell’alba luminosa di giugno, dal suo balcone; a lungo aveva seguito collo sguardo il rapido dileguarsi del suo cavaliero gentile che andava alla battaglia. Poi quando l’aveva perduto di vista, aveva dovuto scoppiare in singhiozzi tra le braccia di suo padre, il vecchio gentiluomo milanese....

Ad un tratto mi sentii stringere all’impugnatura da una mano nervosa ed estrarre dalla guaina, violentemente. Cominciava dunque la pugna?

Eravamo a Monzambano: grandi masse di fanteria austriaca si vedevano azzurreggiare in distanza; nell’aria era un continuo scintillare di lance, di baionette, di spade; era un crepitar lontano di moschetti, un rombo fiero di cannoni; grosse nubi di fumo bianco salivano nella serenità trasparente del cielo.

— Ci siamo! pensai.

Lo squadrone dietro a me, (la sua mano mi agitava in aria in segno di comando), aumentava la celerità dell’andatura, allungava il galoppo, si metteva in linea. Si vedevano distintamente i quadrati della fanteria nemica irti di baionette, avano di tanto in tanto sul nostro capo le granate fischiando come bolidi incandescenti.

— Avanti!... tuonò la sua voce.

La lunga linea di uomini e cavalli pareva una legione di angeli sterminatori.

Caricat!...

Savoja!...

Non rammento più nulla: una grandine di piombo cadde su noi senza arrestare la nostra corsa precipitosa, poi [16] un’altra più fitta, più micidiale; i cavalli eccitati, spaventati, le nari fumanti e l’occhio feroce volavano calpestando tutto come gl’ippocrifi di una truce visione Dantesca. E sempre il glorioso grido incitatore ne incalzava alle spalle:

— Savoia!...

Poi una granata ci scoppiò proprio dinnanzi con orrendo fragore e sentii che una parte della mia lama volava via trasportata da una scheggia. Mallecho stramazzò a terra fulminato, io sentii che la mano del mio giovin signore m’abbandonava, ma rimasi attaccata al suo polso per la dragona. Tutto lo squadrone in corsa sfrenata volò sopra di noi, tornò indietro, rivolò quattro volte all’assalto fino a che rimase vincitore....

Alla sera si seppellirono i cadaveri si raccolsero i feriti; i medici, gl’infermieri e le suore di carità giravano sul campo della carneficina. Un gruppo d’uomini mi circondava.

— È morto? domandò una voce a me nota, la voce del vecchio gentiluomo milanese.

— Sì, disse il medico addolorato: una scheggia di granata gli ha squarciato il petto.

La granata austriaca aveva spezzato tre esistenze: la mia, la sua e quella di Bianca....

Ora colla lama rotta a metà e coll’impugnatura rossa di sangue e nera di polvere, sono ritornata nell’astuccio di velluto, e sto nella vedova camera nuziale di Bianca come una reliquia preziosa.

[17]

CAMERE MOBILIATE 4l4b1z

A Maurizio Basso.

Al momento di dare un’eterno addio alla mia vita di scapolo, posso dire che la storia dei miei dieci anni di spalline si riassume tutta in queste due parole: Camere mobiliate.

Hai mai pensato, amico mio, quale portentosa influenza può esercitare una camera mobiliata sull’intero corso della nostra vita?

La camera mobiliata fa parte dell’esistenza dell’ufficiale, la modifica o la determina secondo i casi, la regola sempre. In certe camere, per esempio, io ero di una saggezza esemplare, in certo altre invece.... Dio mio!... Basta, io modificherei il vecchio proverbio così: «Dimmi la camera che hai e ti dirò chi sei». No?... In dieci anni di vagabondaggio traverso all’Italia, io ho provato tutte le specie possibili e immaginabili di camere ammobiliate, dalla volgare cameretta d’albergo a 1,50 per notte, all’elegante garçonnière in corso Umberto a Torino; dalla camera dell’ufficiale a disposizione in quartiere, alla cameretta civettuola, allo [18] studietto intellettuale ed allegro di Corso Palestro, dove ho scarabocchiato tanta carta e condotto parallelamente le fila di tanti dolci idillii....

Nelle stanze a disposizione però, (mi affretto a dirlo ad onor del vero), non ci sono stato che per forza, quando ero agli arresti in quartiere, per motivi quasi sempre indipendenti dalla mia volontà. Oh lunghe, tristissime ore di arresti nel cupo quartiere dei Quattro Venti a Palermo, in quella celletta da cenobita, così malinconicamente deserta di mobili, così fiocamente illuminata dalla luce scialba del cortile!

Io rammento: un lettuccio di ferro da collegiale ornato di una zanzariera a baldacchino; un vecchio comò zoppicante, colle serrature arrugginite ed inservibili; un tavolinuccio ricoperto da un cencio di tappeto rosso, pieno di macchie d’inchiostro, e quattro sedie che si tenevano ritte per virtù d’equilibrio. Di nuovo, in quella cameretta, non c’erano che i miei oggetti di divisa di sottotenente appena promosso; anzi i galloni della giubba e del berretto appesi all’attaccapanni, mettevano in quel grigiore scialbo uno scintillamento di chincaglieria che faceva pensare ad una bottega di rigattiere in cui fosse per caso capitato uno stok di roba nuova. Di mio, di veramente mio, non c’erano che alcuni ritratti di famiglia attaccati al muro, e un quadretto rappresentante la Madonna della Seggiola appeso a capo del letto.

Il quadretto lo scopersi il giorno che vuotai il baule per dar la consegna di tutti i miei indumenti al mio primo attendente, il soldato Serra.

Era accuratamente ravvolto in una copertina di giornale, e portava sul tergo alcune parole scritte colla calligrafia tremolante della mamma: «Che la Madonna ti accompagni sempre e vegli sui tuoi sogni e sui tuoi pensieri!»

Nel coperchio del baule, dalla parte interna, c’era pure, attaccata colla gomma, una piccola immagine in litografia [19] rappresentante la Madonna del Rosario colle braccia distese quasi ad accogliervi tutta l’umanità sofferente, e lo sguardo dolcemente rivolto ai peccatori della terra, come un’invito.

Nella piccola cornice bianca era scritto un solo nome: «Clelia». Rammento che ne rimasi assai commosso: la mamma e la sorella, senza saperlo forse, avevano avuto per me lo stesso affettuoso pensiero, quello di mettermi sotto la salvaguardia della Madonna.

Ora il vecchio baule non c’è più, il piccolo letticciuolo da collegiale è rimasto a Palermo; ma la Madonna della Seggiola guarda ancora dal coperchio della cassa, i miei indumenti di vecchio tenente e di cittadino rimesso a nuovo.

Eppure fu in quella cameretta così poveramente mobiliata che io, appena diciannovenne, sognai i miei sogni più belli e insensati d’amore, di grandezza e di gloria. Oh lunghe, febbrili insonnie nell’afa meridiana d’Agosto, nello scirocco caldo e soffocante di sabbia e di profumi di zagara! Oh deliziose insonnie notturne, carezzate dalla brezza marina, oh incomposto tumultuar di desiderii ignoti, di vaghe speranze, di progetti confusi!... Oh vigoroso galoppar di vita per i muscoli e di giovinezza per le vene!... Oh, vent’anni! oh, vent’anni!...

***

Poi, ti ricordi? Le due gaie camerette della Gran Brettagna in Via Bandiera, colla porta che serviva da finestra e viceversa ed il salotto comune dell’Albergo, dove capitavano i più bei tipi di questo mondo: e la saletta da pranzo, quella specie di table d’hôte presieduta da quel buon diavolo di vecchio troupier del cavalier Sebasti, tenente anziano reduce dalla Crimea e possessore di giubbe o pantaloni inverosimili, ti ricordi?

[20]

Oh! i pranzetti allegri, le allegre partite a scopone con quei due cari mattacchioni di Ballerini e di Rosati, le belle risate alimentate da quel celebre vino siciliano nero, e denso come il sangue di qualche favoloso leone!... Oh! le belle e gioconde risate colla Contessa, con la maestra di se e col signore tedesco che le faceva gli occhi di triglia, le magnifiche serate ato col bicchiere in mano come Goliardi del vecchio stampo, a dar la stura al nostro inesauribile buon umore, all’effervescenza della nostra giovinezza che ci fuggiva da tutti i pori come la schiuma del generoso Champagne!

Le magnifiche serate al Politeama in seconda cavea, vestiti in borghese come tre manigoldi, te le ricordi?

Io ho sempre presente la figura del nostro degno bersagliere, con quella cappellata bassa da mosciarellaro e quei pantaloni a campana da calzolaio indomenicato che ci guardava tutti e due coll’aria di pietoso disdegno con cui Don Marino Torlonia guarderebbe un commesso di negozio.

E solamente il ricordo di quei beati tempi, a dieci anni di distanza, mi rasserena il viso come per incanto, mi mette sulle labbra il prurito di ridere ancora di quel bel riso spensierato e squillante che rallegrava il cuore....

***

Ma ritorniamo alle camere mobiliate. Quanto ne ho cambiate in dieci anni? Chi se ne ricorda? Rammento quelle dove ho abitato più a lungo, quelle in cui si è compiuto qualche atto importante della mia esistenza di scapolo un po’ scapato. Tutte eguali però, dal più al meno, tutte colla fisonoinia volgare di camera d’affitto, cogli identici mobili, e i soliti fiori artificiali sotto le campane di vetro e le oleografie identiche su cornici da [21] rigattiere. E come le camere, così le padrone. Dalla Conca d’Oro all’estremo paesello delle Alpi; tutte le stesse, con gli stessi vizii e le stesse virtù, pronte a chiudere un’occhio o a scandolezzarsi secondo le puntualità del pagamento, curiose come.... padrone di casa e pettegole come lavandaie.

Ricordi la baronessa che ti veniva a spiare dalle stecche delle persiane? Ricordi la magnifica lezione che le desti una bella sera in cui la sua curiosità ti aveva seccato?

***

Quella delle padrone di casa è una classe di persone su cui, noi ufficiali, potremmo fare degli studii profondi. Dall’affittacamere di professione alla contessa autentica, ma decaduta che affitta per bisogno, che varietà infinita di tipi, che sbalorditoia gamma di toni e semitoni!... Ma più ricca ancora di sfumatura, di toni e di colori è la classe delle padroncine di casa che comincia dalla sartina e ando per la maestra, che è il tipo più comune, finisce colle signorine per bene.

Se le padrone di casa che si lasciano corteggiare dal loro inquilino appartengono al genere più pericoloso, le padroncine di casa sono pericolose sempre specialmente per i sottotenenti giovani e non abbastanza agguerriti e corazzati contro le lusinghe dell’eterno femminino.

Molti matrimonii legali od illegali, (ma il più delle volte illegali) hanno avuto origine da un semplice «buon giorno» scambiato per le scale tra la padroncina di casa e il suo inquilino reduce dalla piazza d’armi o dalla tattica; molti collages, molti disgraziati legami, sono dovuti all’impossibilità di liberarsi da una padrona di casa che ha dei diritti; molte seccature non sono che il prodotto di piccole vendette di padrona di casa lasciate in asso. [22] Le padroncine di casa arrivano al loro scopo in vari modi e con vari procedimenti adatti per lo più all’indole dell’inquilino; tutte le armi sono buone, da una sapiente modestia a un’audacia sapiente, dal sagace temporeggiamento alla dedizione improvvisa, dalla ritirata prudente all’accorta entrata in tempo.

Quando ci sono le padroncine, le mamme agiscono di seconda mano e rappresentano il rinforzo che giunge sempre in tempo nei momenti più difficili, come una riserva napoleonica usa a manovrare per linee interne.

Nessuna madre nobile di ruolo saprà mai riprodurre al vero la matronale aria di dignità che assumono in certe circostanze codeste agenti di matrimoni al minuto; nessun psicologo le supera nell’arte di giudicare a prima vista l’uomo della situazione.

In questa bisogna, esse posseggono un odorato infallibile; quando la faccia del nuovo inquilino non presenta i requisiti voluti, il loro contegno verso di lui diviene di una rigidezza eccezionale e la loro sorveglianza sulle figliuole di una feroce acutezza.

Non serve che la camera del pigionale sia perfettamente libera ed abbia la porta sulle scale; non serve che tornando dal teatro lui e l’altra entrino in casa colla massima precauzione, che l’altra esca di casa sul far del giorno, quando tutti dormono ancora.

La terribile padrona di casa sente i rumori più impercettibili; indovina da quelli tutti i movimenti, nulla le sfugge, nè il minuto preciso dell’entrata, nè il minuto secondo dell’uscita.

E allora, quando ella ha di già in vista l’uomo, un bel giorno vi fa chiamare dalla sua domestica e vi dice con l’aria di una regina offesa che quella non è la maniera di regolarsi in casa di gente per bene, dove ci sono delle fanciulle oneste e timorate di Dio, e che si meraviglia.

Voi, naturalmente, vi meravigliate più di lei di essere stato oggetto di un così odioso spionaggio e protestate. [23] Ella ribatte e vi dice di cercarvi un altro alloggio. Voi cercate e trovate.

Alle volte può accadervi, come è accaduto a me a Parma, di capitare in casa di gente allegra. La padrona di casa ancora giovane, belloccia, senza tanti scrupoli, che vi offre gentilmente la camera e la sua compagnia; un’adorabile cameriera al piano di sotto, una modista sullo stesso pianerottolo, tre cucitrici di bianco al terzo piano, pronte ad invadere la vostra stanza al primo cenno d’invito, al primo pizzicar di chitarra.

E può accadervi, come a me, di tenere la porta spalancata tutto il giorno e buona parte della notte, di far molta musica e di farsi suonare maledettamente agli esami.

Può accadervi di andare ad abitare a un primo piano, sopra la bottega di un barbiere, che si crede in dovere di venirvi ad offrire i proprii servizii nonchè di darvi parecchi non richiesti consigli sulla scelta delle relazioni da farsi nel casamento, e particolari preziosi sulle abitudini di tutti i pigionanti.

Vi può capitare anche una padrona di casa vedova sì, ma romantica che svaligerà la vostra biblioteca e la vostra toeletta e si metterà in vedetta dietro le stecche delle persiane per sapere chi viene a trovarvi; oppure un’onesta madre di nove marmocchi che non vi lasceranno dormire un’ora del giorno, che spieranno sulle scale un vostro sorriso o una vostra innocente carezza per invadervi la camera, attaccarsi alla vostra sciabola, portarvi via la dragona, manomettervi tutto. O il martirio chinese di un dilettante di piano o di violino, o il prospetto di una famiglia sistema Vergini di Praga, che vi inviterà immancabilmente ai suoi giovedì musico-danzanti.

Ovunque voi andiate è un’insidia tesa e più o meno abilmente celata. Se la casa ha un portiere avete un nemico naturale, se non l’ha ne avete tanti quanti sono gli inquilini. Se oltre alla camera accettate di stare in pensione dalla vostra padrona di casa, siete un uomo perfettamente rovinato.

[24]

***

Barcamenarsi saggiamente per dieci anni da una camera all’altra in tutte le città d’Italia, sfuggire per dieci anni di seguito a tutte le insidie, rompere tutte le ragnatele, eludere i trabocchetti, sfatare l’incanto di tanti sorrisi, non è cosa da tutti. Molti cadono nella pania delle prime lusinghe, molti ci cascano improvvisamente quando già cominciavano ad agguerrirsi, pochi resistono sino alla fine.

In certe camere che sembrano predestinate, rimangono molti lembi di cuore e molti lembi di portafoglio; certune hanno visto cadere molti ideali e assistito alla morte di molte libertà di scapoli: chi sa quante hanno il diritto di chiamarsi storiche per il succedersi degli stessi fenomeni nei medesimi punti, nelle ore medesime! Ci pensi tu?... È spaventevole!...

Perchè, cambiano i reggimenti di guarnigione, cambiano i distaccamenti, ma le camere mobiliate rimangono sempre le stesse e nulla in esse si rinnova mai, nemmeno il copriletto di satin giallo ricoperto di crochet, nemmeno le tendine confezionate in casa, nemmeno il tappetino su cui tante generazioni di stivali si sono posate.

Certi casamenti che l’abitudine ha omai consacrati, acquistano una specialissima fisonomia di quartieri in festa, cogli attendenti che vanno e vengono, colle giubbe e i pantaloni dalle fodere e dalle bande rosse, gialle, cremisi o bianche, sciorinate al sole sui terrazzini del cortile. In quegli alveari umani le bambine crescono liberamente, abituandosi, familiarizzandosi all’idea che un giorno avranno anche loro il proprio ufficiale, non importa come, non importa quando.

E i frutti che un Reggimento ha lasciato acerbi l’altro [25] Reggimento trova maturi e pronti a lasciarsi cogliere da una mano avida: quello che la fanteria ha preparato la cavalleria raccoglie, lasciando l’eredità ai bersaglieri; le lacrime spremute dall’artiglieria sono asciugate dal genio. Oh, invidiabile cameratismo! Che ne dici? Se tutti cercassero la camera colla pregiudiziale di questo idee, molte lacrime si asciugherebbero da sè per mancanza di pietosi fazzoletti disposti a tergerle.

Ma c’è un Dio anche per le padrone di casa giovani, per le padrone di casa vedove, per le padrone di casa romantico-sentimentali. C’è un Dio anche per le padroncine bellocce senz’altra dote che la voglia di maritarsi, per le maestre elementari, per le piccole bas-bleu, per le strimpellatrici di piano-forti e per le fanciulle militaromani. C’è la buaggine umana confederata ai vent’anni dei sottotenenti, all’inesperienza dei collegiali, alla potenza assassina degli occhi neri e degli occhi celesti. C’è la vanità umana infinita come la misericordia di Dio, per la quale ogni giovano ufficiale si crede irresistibile in virtù della sua giovinezza e dei suoi galloni; c’è.... c’è....

Ma è il caso di lasciarla lì. Bene o male eh, vecchio mio? siamo giunti sulla trentina sani e salvi ed ora un magnifico scetticismo figlio dell’esperienza ci guida nel mare magno della vita coll’occhio cauto del vecchio pilota avvezzo alle tenebro ed alle nebbie dell’Oceano. Oramai lo scacco barbiere non ce lo danno più, vero? E si comincia a pensare e a desiderare con una certa tenerezza, con uno struggimento grande, ad una camera propria con mobili proprii, senza fiori artificiali sotto le campane di vetro, senza copriletti a crochet, senza il servizio da caffè colle tazze scompagnate sul comò. Si comincia a pensare ad una padrona di casa che non si somigli per nulla alle solite, che non nasconda insidie nei begli occhi e secondi fini nel sorriso, che non frughi tra le vostre carte, che non legga le vostre lettere, che non adoperi i vostri fazzoletti. Una bella padroncina di casa che sia [26] anche la padrona del vostro cuore e vi liberi per tutta la vita dal martirio delle camere mobiliate.

Non è vero che ci pensi anche tu, birbone? O confessalo via!...

Ma se si trattasse di tornare a vent’anni, nelle nostre camerette della Gran Brettagna dove io scrivevo — Dio ce ne liberi! — i miei primi versi e tu buttavi giù pupazzetti e novelle veriste da Verga della seconda maniera, ci ritorneresti tu? Eh!... chi lo sa!?...

[27]

IL GRAN RAPPORTO DI CAPO D’ANNO 472m6q

Nella sala di Convegno di uno qualunque dei 96 reggimenti di Fanteria, gli ufficiali in gran tenuta aspettano l’ora del Gran rapporto. La stufa, troppo piccola per la sala troppo grande e troppo vuota, manda un calore problematico che obbliga i più lontani a ravvoltolarsi nella mantellina ed a pestare i piedi in terra. Grillo e Sanguinetti giuocano a scacchi in un angolo, tenendo la scacchiera sulle ginocchia, circondati da un discreto numero di spettatori che si credono in obbligo di suggerire le mosse più contradditorie e di darsi dello schiappino con una liberalità perfettamente giustificata del resto. Pivetti si preoccupa del colletto che gli sembra troppo alto e studia allo specchio l’atteggiamento che prenderà davanti al Colonnello, per farlo sembrare di giuste dimensioni. Lombardi toglie gli elastici dai pantaloni troppo attillati, mentre Cerruti è in pensiero per la sua giubba numero uno che, secondo il Giornale Militare numero tale, parte I anno 1890, è troppo corta ed ha la bottoniera di cavalleria. [28] Qualcuno — cosa strana! — legge con interesse un giornale; otto o dieci circondano il Furier maggiore che distribuisce le lettere e chiamano gli ufficiali per nome ad alta voce.

— Ferraris!

— Presente!...

Ferraris corre nel gruppo che circonda il porta lettere, gli occhietti lucidi, la sigaretta spenta tra le labbra.

Il Furier maggiore gli consegna tre letterine col francobollo da un soldo.

Si alza un clamore di tossi, di starnuti, di esclamazioni, cui fanno eco tutti senza sapere di che si tratti.

— Cristo! a tre alla volta, gli dice Gobbi battendogli una mano sulla spalla.

Ferraris piglia le tre lettere e va a leggerle vicino alla finestra, discretamente seccato; quella che aspettava, la raccomandata, non è giunta. Apre la prima: è un biglietto d’augurio con due colombe che si baciano, un’augurio da quattro soldi; dietro al medesimo è scritto a caratteri di scatola nonchè di lavandaia: Al suo charo Gulio l’affezionata Charolina.

Accidenti! È la serva della padrona di casa....

E per rifarsi apre le altre due.

— Guglielmotti....i....i...! si urla dal gruppo. Guglielmotti che stava insegnando una figura dei lanceri a due sottotenenti nuovi promossi, si avanza.

Il portalettere gli consegna due lettere grandi, rettangolari, colla busta gialla.

— Crediti!... — dice Moglia ridendo.

— Iettatura! — esclama De-Abate facendo l’atto caratteristico dello scongiuro.

Tutti ridono. Guglielmotti non si scompone; mette in tasca le due lettere malaugurate, fermamente risoluto a non aprirle nemmeno, fà un’alzatina di spalle e domanda tranquillamente:

— C’è altro?....

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— Non ti bastano? — dice Moglia, la gran linguaccia del Reggimento.

Guglielmotti ritorna ai suoi due sottotenenti e riprende la figura interrotta fischiando il motivo dei Lancieri.

Balancez! Tour des mains! Bravi! così va bene!

Il gruppo seguita l’appello a voce alta: Ruggeri, tre giornali e la nota del sarto. Sommaruga, una lettera e cinque biglietti da visita; caspita!... Di Giorgio, una cartolina della Cooperativa: conte Lanciotti, detto il Feudatario, due raccomandate. Dominici una circolare di Bevilacqua La Masa.

I non chiamati si affollano ora intorno al Furiere domandando con ansia, volendo vedere:

— Furiere, c’è niente?

— Prosperi nulla?

— Gambardini nulla?

Il Furiere a mani vuote si squaglia; i fortunati leggono le lettere delle mamme, delle sorelle, delle amorose, delli amici lontani, Guglielmotti invece seguita la lezione, spiega la grand chaine praticamente, dando certi strapponi ai suoi allievi che pare il castigo di Dio; Lanciotti, il feudatario riempie il portafogli di biglietti rossi, con un’aria soddisfatta, sorridendo, badando a metterli bene in mostra, carezzandoli colle manine morbide adorno di brillanti. Ruggieri stropiccia nervosamente i giornali e rabbiosamente la nota del sarto. Grillo che prevede prossimo lo scacco matto, cerca tutte le maniere per mandare a monte la partita; Oliva e Bartoli discorrono in un angolo accendendosi reciprocamente il mezzo toscano.

— È venuta?

— Sì....

— Racconta, racconta....

— Una serata splendida....

— E.... (gesto espressivo della mano).

— Che domande! Si sa! (Sorriso analogo) però mi toccherà a scontarla cara, credo di essere sotto chiave....

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— Perchè?

— Perchè ho mancato alla ritirata; capirai, come dovevo fare? Se me la lasciavo scappare ieri sera ero suonato. D’altronde il capitano d’ispezione che non si era fatto vedere in tutta la settimana, capita in quartiere proprio ieri sera.... Se ti dico ho una fortuna!...

Il piantone spalanca la porta e dice:

— Gran rapporto!...

Gran rapporto! Tutti si alzano, depongono le mantelline sulle sedie, sul divano, agli attaccapanni ed escono tumultuosamente per la porta spalancata. Nella sala del Gran rapporto si dispongono in circolo, per battaglioni, i capitani in prima linea, i subalterni dietro al rispettivo capitano, terminando di calzare i guanti in fretta, tutti serii, assumendo l’aria delle grandi circostanze, respirando con voluttà l’aria calda dell’ambiente, sgranchiendo le membra gelate in quella ghiacciaia della Sala di Convegno. I comandanti di battaglione fanno l’appello:

— Prima compagnia?

— Tutti presenti.

Pivetti che è alto come un palo telegrafico, invidia gli ufficiali della 12ª che hanno un capitano più alto di lui, il più gran capitano dell’epoca, come lo chiama Moglia. Fortunati! Almeno se hanno un colletto troppo alto o la giubba troppo corta si possono nascondere.

— Seconda compagnia? — seguita il maggiore.

— Tutti presenti. Rondelli è di guardia al Palazzo Reale.

— Bene, Terza compagnia?

— Manca il capitano.

— Dov’è?

— Mah! non so, discorreva col furiere....

— Cristo! manca sempre qualcuno; quarta compagnia?

— Tutti presenti.

Compare il capitano della 3ª tutto trafelato, col kepy sulle ventiquattro, con un guanto infilato e l’altro no.

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Il tenente gli dà le novità della compagnia in cui, viceversa non vi sono novità.

Mancano ancora i contabili. Il medico dov’è? Ah! il medico c’è.

Quei benedetti contabili!... Bisogna sempre farli chiamare almeno tre o quattro volte.

Compare la pancia immensa del capitano direttore dei conti — un vero magazzino di viveri di riserva — il nemico acerrimo di tutti gli ufficiali per l’incredibile grettezza con cui amministra gli stipendi, come se spendesse del suo: compare l’anima lunga di Borich — l’ufficiale pagatore — stecchito e magro come un’asceta, con un viso meravigliato di sè stesso e degli altri che fa ridere; e dietro a lui l’ufficiale di magazzino, una bella testa di frate gaudente, il petto coperto di due decorazioni vere, e di molte altre fatte artificialmente col grasso, i pantaloni d’ordinanza tagliati senza nessun riguardo all’economia e al risparmio.

— Ci siamo tutti?

— Tutti.

— Attenti!...

Entra il signor colonnello colla mano alla visiera del berretto, con una faccia scura, più scura del consueto, e va a mettersi davanti al tavolo ricoperto di panno bleu:

— Stiano comodi!...

Nessuno si muove: quello stiano comodi è detto con un tuono di voce che minaccia tempesta.

Il tenente colonnello si avanza, saluta e dice a voce alta:

— I signori ufficiali per bocca mia, le esprimono i più sinceri voti di felicità per l’anno nuovo, ed io mi ritengo ben lieto ed onorato di farmi loro interprete presso di lei e....

E qui gli manca la parola.

Dietro la linea immobile dei capitani accadono impercettibili ma eloquentissimi movimenti nei subalterni; tutti provano il bisogno di comunicarsi i loro pensieri e non potendo parlare si toccano.

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Quelli di dietro toccano quelli davanti, i vicini si danno nel gomito, qualcuno si morde le labbra, altri alzano gli occhi al cielo per chiamarlo in testimonio della loro innocenza in quella manifesta bugia dell’augurio; i più anziani, che ne hanno viste di peggio, sorridono lievemente, scuotono impercettibilmente la testa come a dire: Questione di prammatica, che ci volete fare?...

— Presso di lei e.... ripiglia il tenente colonnello che ha ritrovato il filo....

— Grazie, interrompe bruscamente il colonnello, — ma prima di parlare di augurii, occupiamoci del servizio. È già la terza volta, signori, che arrivano lettere dalla Divisione circa la trasgressione fatta alla tenuta dai signori ufficiali, ed io intendo as-so-lu-tamente che questo sconcio — mi lascino dir così — abbia a cessare. Anche ieri sera al Teatro ed al ballo del Circolo Militare, furono osservati parecchi tenenti e sottotenenti con dei colletti impossibili e con delle giubbe troppo corte....

— Ci siamo! — pensa Pivetti, che non ha mai tanto maledetto la sua statura di granatiere come in questo momento....

Siam suonati o regina! mormora a denti stretti Cerruti tirandosi la giubba a più non posso.

— ... Non volevo far nomi, ma poichè i colletti alti e le giubbe corte compariscono anche al Gran rapporto (terribile e minaccioso ingrossamento della voce), mi vedo obbligato a mettere agli arresti il signor Pivetti che ha un colletto inverosimile, sì inverosimile, ed il signor Cerruti che ha una giubba che non arriva a coprirgli la vita. Crede lei signor Cerruti di star bene con quel giubbettino?

Cerruti non risponde ma pensa, con una tal quale giustezza, che se credesse di star male, molto probabilmente non la porterebbe: se non sta bene, certo però non sta nemmeno male come il suo vicino Lantecchi che la porta di perfetta ordinanza....

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— E per oggi — seguita il colonnello, mi limito a questi due: ma metto in guardia i signori comandanti di compagnia e di battaglione che d’ora in poi li terrò responsabili della tenuta dei loro subalterni. Vadano pure!

Il Gran rapporto è finito: ma ora è la volta dei rapporti parziali, il rapporto dei comandanti di battaglione e quello dei comandanti di compagnia. Subito si formano i gruppi dei tre battaglioni negli uffici appositi, intorno al tavolo del maggiore. I due maggiori ed il tenente colonnello che erano entrati in quartiere tutti e tre allegri nella speranza di cominciar bene l’anno, dopo la ramanzina solenne del papà, escono dall’ufficio tutti rabbuiati in volto, seccatissimi di quella paternale sulla tenuta, frequente ed inutile come le grida contro i bravi di manzoniana memoria. E la paternale incomincia per ogni battaglione, riveduta, corretta e con parecchie aggiunte intercalate nel testo.

— Non è la prima volta ecc. ecc. Si vede proprio che con lor signori le parole non valgono (sguardo severo alle due file dei subalterni), e bisognerà per forza adoperare dei mezzi persuasivi.... Dunque siamo intesi; uomo avvisato, mezzo salvato. Ci pensino i signori comandanti di compagnia che io tengo responsabili verso di me. Sono in libertà. Si esce dalla stanza del Battaglione e si ritorna in sala di convegno; i gruppi di tre diventan dodici:

Terzo, ultimo e non meno affliggente rapporto dei Comandanti di compagnia:

— Io sono responsabile e sta bene; ma la prima volta che mi vengano davanti con qualche oggetto fuori di prescrizione, sia detto una volta per sempre, li sgnacco agli arresti senza misericordia (esaminandoli collo sguardo) lei signor Bartoli, se non fosse di già agli arresti per aver mancato ieri sera alla ritirata, meriterebbe di andarci adesso per questo kepy troppo piccolo....

— Piccolo? che cosa vuole signor capitano, il kepy è vecchio e bisogna dire che la mia testa sia cresciuta... — arrischia il povero diavolo.

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— Non faccia lo spiritoso e veda di provvedersene un altro piuttosto.

— Sissignore, — risponde Bartoli, e aggiunge mentalmente: — alla prima eredità che mi capita!...

Anche il terzo rapporto è finito; gli ufficiali escono dal quartiere a frotte con un prurito di correre nelle gambe a stento rattenuto.

Ah finalmente!

Dialogo colto a volo per le scale:

— Sai perchè nel 66 abbiamo perduto la battaglia navale di Lissa?

— ?....

— Diamine! perchè gli ufficiali di fanteria portavano il colletto troppo alto....

Cerruti e Pivetti si accostano e si stringono la mano.

— Bel Capo d’anno eh?

— Sì, si incomincia bene, non c’è che dire....

— E io che ero invitato a pranzo dalla mia fidanzata!

— E io che era aspettato da mia cugina!

— Mah!

— Ci vuol pazienza!

E tirano un grosso sospiro per uno.

Sulla porta del quartiere urtano contro la pancia enorme del capitano Direttore dei conti che li ferma con un gesto della mano:

— A proposito signori, li prevengo che ho fatto far loro una ritenuta sullo stipendio....

— Perchè?

— Per le cucine degli ufficiali degradate (sic!) in distaccamento.

Ma Cerrutti e Pivetti hanno preso la fuga. Al diavolo lui e le sue ritenute! Anche questa bella notizia ci mancava per cominciare bene l’anno....

— Figurati, dice Pivetti, che ho preso lo stipendio ieri e son rimasto....

— Con quanto?

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— Con dieci lire.

Cerruti gli salta al collo:

— Oh! mortale fortunatissimo! con dieci lire? me ne presti cinque a me e restiamo pari.

— Come pari?

— Già, con cinque lire per uno, perchè, vedi, a me dello stipendio non è rimasto che questo....

Ed estrae di saccoccia una lettera colla busta gialla dov’è la nota del calzolaio lunga come l’infinita misericordia....

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PER UN GIORNO DI CONSEGNA 4ot61

Già da un’ora Nennella, inquieta, era alla finestra ad aspettarlo, ma Bista non veniva. avano per lo stradone provinciale i soldati a frotte, allegri, puliti, colla trecciuola sul kepy e i guanti della domenica; avano a frotte i coscritti coi grandi berretti calati sulle orecchie, con quello faccie imberbi di contadini stupefatti, colle membra rigide, col o stecchito ed impacciato, non sapendo che farsi delle mani infilate in quegli enormi guantoni a calza che parevano manopole da scherma.

avano tutti e Bista non ava.

— Cosa gli sarà successo, Madonna mia? — pensava Nennella spaventata.

Cominciava ad imbrunire; in quella magnificenza di tramonto invernale le cose intorno pigliavano tutte una molle tinta di viola e veniva dal mare una brezzolina fresca piena di profumi d’alghe e di catrame.

Nennella discese in bottega dove la vecchia madre dormiva accoccolata sopra una sedia; i canestri, di fuori, [38] erano quasi vuoti, levò dai sacchi le noci, le castagne secche e riempì i canestri.

Frattanto guardava fuori in direzione del quartiere, fissamente, cercando di penetrare collo sguardo traverso alle finestre di quel grande edifizio cupo, le cui linee severe sembravano ingigantire sfumate dal tramonto. Un soldato si fermò per comperare un soldo di noci.

— Addio Nenne’.... — disse tentando di pizzicarle una guancia.

Ma Nennella di cattivo umore, alzò impazientemente le spalle; poi gli guardò la nappina del kepy e riabbassò subito lo sguardo, desolata; il soldato era della 2ª compagnia, Bista della 9ª, non si potevano conoscere.

Il soldato prese le noci, guardandole ad una ad una, pesandole sul palmo della mano per scegliere le migliori, mentre Nennella rimaneva lì appoggiata allo stipite, nella posa rassegnata di chi aspetta, collo sguardo fisso sullo stradone provinciale che si faceva deserto.

Oramai era notte, Napoli si illuminava; milioni di fiamme nella città, nel mare, nelle colline si accendevano, e saliva il grande e caratteristico frastuono della vita notturna napoletana. Si avvicinò a i affrettati caporale Lo Cicero dalla parte del vicolo della Morte, e chiamò:

— Nennèe!...

Nennella si volse di scatto e riconobbe l’amico di Bista. Impallidì.

— Che nuove ci portate, Lo Cicero?

— Brutte nuove, Nennè, Carmelo è consegnato.

— E cosa ha fatto? Perchè?

— Non mi ricordo bene; ma mi ha detto di salutarvi e di dirvi che a mezzanotte l’aspettate.

Nennella disse stupefatta:

— A mezzanotte? Ma lo fanno escì a quell’ora?

— Non lo fanno uscire, Nennè, salta la barra.

E Lo Cicero fece l’atto di chi salta un muro.

— Madonna santa! s’avessero da scoprí li superiori! — disse Nennella impaurita.

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Lo Cicero alzò le spalle per rassicurarla. L’aveva saltata tante volte lui!... E mentre le spiegava il modo di farla franca, Nennella lo interruppe.

— Lo Cicero, che giorno è oggi?...

— Sabato — rispose Lo Cicero alquanto meravigliato, e seguitò il discorso.

Sabato: Nennella si sentiva rassicurata: sempre il sabato a notte suo marito pescava a Mergellina e non tornava che alla domenica dopo la vendita in mercato; meno male, meno male. Ma le era rimasto nell’anima un fondo di paura, un presentimento di cattivo augurio.

— Lo Cicero, ditegli che non venga....

— È inutile — rispose lui alzando le spalle — Bista è più testardo di un mulo: ha detto di venire, verrà! — E se ne andò.

Ad un tratto Nennella si vide innanzi Cicillo, il garzoncello di suo marito, quello storto malizioso che le era sempre tra i piedi colla sua aria di bertuccia malvagia.

— Cosa vuoi Ciccillo? — disse Nennella quasi spaventata dalla subita apparizione.

— Mi manda don Nicola per le lenze piccole; questa notte stiamo fuori.

Sgattaiolò su per le scale con un sorriso malvagio sulle labbra bianche, dondolando le anche deformi, e ricomparve poco dopo tenendo in mano le lenze ed una torcia da pompiere.

— Volete niente per vostro marito?

— Tanti saluti e buona fortuna! — fece Nennella offrendogli un pugno di noci.

Lo storto prese le noci e se ne cacciò subito in bocca una, scappando senza ringraziare: quando fu arrivato alla barca dove don Nicola l’aspettava, depose le lenze e la torcia e cominciò a vogare al largo. Vogando sorrideva di quel suo sorriso sinistro che portava sempre disgrazia.

Don Nicò, ve volete senti ’nu fattarello?...

Conta, conta, Ciccillo — rispose don Nicola a prua, accendendo la pipa.

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— C’era una volta un pescatore ammogliato....

E lo storto maligno rideva, rideva....

***

La vecchia in bottega, rannicchiata sopra una seggiola, russava allegramente. Nennella aveva le lacrime agli occhi: quello storto maligno portava la jettatura, doveva succedere qualche disgrazia, doveva succedere.

Adagio, adagio, prese il sacco delle castagne e cominciò a tagliarne la scorza con un coltellino che le pendeva dal grembiale, poi accese il fuoco e le mise ad arrostire sulla padella bucherellata: lo stradone s’era fatto buio, solo lunghe file di carri carichi di vino, avano lasciando nell’aria rumori di sonagliere e schiocchi di fruste.

Cuocendo le castagne Nennella pensava a lui. Perchè glie lo avevano consegnato? Che cosa aveva fatto?...

E le pareva di vederlo a mezzanotte arrampicarsi furtivamente sul muro di cinta e spiccare un salto. Dio! Dio! quell’idea la faceva fremere. Quel maledetto muro era tanto alto!...

Intanto qualche soldato rientrava in quartiere, l’ora della ritirata si avvicinava e lo stradone si andava rianimando. Carmela la Rossa riapriva il balcone per vedere se Gigli, il caporal maggiore della 6ª, rientrando in quartiere guardava Nennella: tutte le comari escivano sulla strada chiacchierando e i monelli correvano incontro alla fanfara che si avvicinava.

Anche Nennella sulla porta della bottega aspettava Lo Cicero: voleva pregarlo di decidere Bista a rinunziare al suo progetto; aveva paura che gli succedesse qualche cosa; ma non gli riuscì di vederlo in quella confusione di gente che marciava compatta dietro le trombe squillanti. Due o tre coscritti si fermarono a comperare delle [41] castagne poi arono in frotta molti sott’ufficiali e al o di corsa i ritardatarii, poi più nulla.

Nennella chiuse la bottega, mise a letto la vecchia madre addormentata sulla sedia e aspettò.

Sulla porta del quartiere Bista fermò Lo Cicero.

— Hai fatto?

— Ho fatto.

— Che disse?

— Hai paura che ti scoprano: bada a te!...

E si separarono.

***

Battista Carmelo era un bravissimo giovane. Non aveva che un difetto: era caparbio come un mulo: quando si metteva in testa qualche cosa aveva da essere quella ad ogni costo. Invano gli amici e i superiori l’avevano avvertito più volte che quel difetto poteva portargli conseguenze assai gravi: Bista non voleva correggersi.

Quel giorno il tenente osservò che il caporale Carmelo non prestava la solita attenzione all’istruzione delle reclute e lavorava di malavoglia; dopo averlo più volte ammonito, visto che le parole tornavono inutili, lo consegnò.

Quella prima punizione fece a Carmelo l’effetto di una coltellata. Appunto quella sera aveva bisogno d’esser libero, e Nennella lo aspettava per un certo progetto.... No, no; era impossibile, lui in quartiere non ci voleva stare; sarebbe uscito lo stesso malgrado la consegna; ma.... e poi?...

Uscire non era possibile; alla porta c’era d’ispezione il sergente della sua compagnia che lo avrebbe fermato senz’altro, e poi lo avrebbe dato mancante alla chiamata dei consegnati. Allora pensò di saltare la barra e pregò Lo Cicero di avvisare Nennella.

[42]

Saltare la barra era presto detto; il muro di cinta era alto, le finestre della camerata altissime; inoltre il muro di cinta era guarnito da una quantità di vetri rotti acuminati e taglienti che dovevano rendere poco agevole la scalata. Così pensando girava per il cortile come belva in gabbia, cercando di orientarsi, di trovare una soluzione al problema. E si domandava come avevano fatto certuni che si vantavano di aver saltato la barra tante volte; allora si ricordò di Gamberini della 7ª l’amante di Rosa Catena, che assicurava di aver seguitato un mese a star fuori tutte le notti, e cominciò a cercarlo dappertutto.

Finalmente lo trovò: lo invitò a bere in cantina, e lo pregò a volergli insegnare il modo di farla franca. Gamberini diede le indicazioni necessarie, e promise che a mezzanotte in punto si sarebbe trovato sul posto per aiutarlo.

In quelle tre lunghissime ore, dal secondo segnale del silenzio alla mezzanotte, Bista soffrì le pene dell’inferno; qualcosa dentro gli diceva che avrebbe fatto meglio a dormire, che qualche disgrazia gli poteva capitare, ma egli chiudeva l’orecchio alla voce della prudenza, e si incaponiva sempre più; gli pareva che il suo proposito dovesse essere irrevocabile ora che Nennella lo aspettava.

E frattanto tutti dormivano e il tempo non ava mai.

Alle undici, dopo essersi voltato e rivoltato da tutte le parti senza poter trovare una posizione comoda, si alzò, si vestì pian piano, traversò la camerata in punta dei piedi e scese in cortile. Quasi a farglielo per dispetto, il cortile era magnificamente illuminato da una luna splendida; eggiare non si poteva, c’era da essere scoperti. Ritornò in camerata e si gittò sul letto ad aspettare, febbricitante d’impazienza, non avendo un muscolo che tenesse fermo: quell’ora non ava dunque mai?

Quando la mezzanotte gli parve vicina, sorse con precauzione dal letto ed uscì dal camerone che gli pareva [43] di soffocare; in cortile respirò, non c’era nessuno. Si avanzò fino al luogo del convegno trepidante e commosso; Gamberini non c’era ancora, bisognava aspettarlo. Suonarono le undici e tre quarti all’orologio del quartiere, poi suonò la mezzanotte, e Gamberini non si vedeva. Come fare? per scalare ci voleva un aiuto, una mano, una corda, qualcosa insomma, e a quell’ora come trovare quegli oggetti? Finalmente gli balenò un’idea; le scrostature del muro gli fecero pensare che altri dovevano esservicisi arrampicati appoggiandosi agli spigoli dei mattoni. Se altri erano riusciti perchè non sarebbe riuscito lui?

Volle provare; agile e destro come era, in un istante fu a cavalcioni del muro; aveva indovinato il punto buono; dalla parte opposta c’era un salice enorme che gli tendeva i rami come un invito. Si aggrappò ad un ramo e si lasciò scivolare giù sino al tronco robusto, poi spiccò il salto e si trovò in campagna.

Appena raggiunta la strada provinciale vide in distanza una finestra illuminata, quella di Nennella; evidentemente la povera donna lo aspettava; procedè avanti quasi di corsa col cuore gonfio di gioia. A venti i dalla casa fece il solito fischio e Nennella spalancò la finestra e disse:

— Vengo!

Ma nello stesso momento una mano poderosa lo afferrò alla nuca, ed egli sentì penetrarsi tra le costole la lama diaccia d’un coltello. Fu un istante. Carmelo cadde bocconi senza dir parola, e mentre Don Nicola si dileguava a gran i per il vicolo della Morte rimettendo in saccoccia il coltello insanguinato, Ciccillo, il malefico aborto, bussava alla porta di Nennella, gridando a perdifiato:

— Donna Filomè!... donna Filomè!... mi manda vostro marito a dire che ringraziate la Madonna, chè la pesca è stata buona stanotte!...

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AL DISTRETTO 344w2

I. 423bq

Scendendo dal treno dopo avere per un buon tratto di strada ricostrutto colla fantasia tutti i capitoli della famosa Disfida, mi figuravo Barletta una grande città e quasi quasi pretendevo di trovarvi gli abitanti vestiti coi costumi di quell’epoca, maglie, brache e giustacuore. Era una giornata di novembre splendidissima ed il verde malvagio Adriatico come per dare una smentita a Gabriele D’Annunzio, era invece calmo come un olio e azzurro come gli occhi della mia Ninì.

Uscii dalla stazione e mi internai nella città storica.

Potenzinterra!... Di veramente medio-evale non scopersi che il Castello e il sudiciume addensato nelle vie e sulle facciate delle case. Anzi, ma che medio-evale! Il sudiciume doveva risalire senz’altro all’epoca della fondazione della città e rimaneva là trionfalmente a dimostrare non tanto la mancanza di scope, quanto l’olimpica.... come dire? indifferenza degli abitanti.

Ma forse il Municipio lo lascia lì apposta per far vedere ai forestieri.... il colore locale.

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Domandai quale fosse l’albergo meno.... più.... insomma l’albergo migliore e mi diressi a quello indicatomi; La stella, naturalmente d’Italia, dove mi fu assegnata una camera sul genere famoso di quella che toccò al Berni

Udite Fracastoro un caso strano....

Ma lasciamo andare. Causa la presentazione dei coscritti al Distretto, Barletta era animatissima; frotte di contadini affluivano da tutte le strade di campagna, famiglie intere con gli asini, i muli, le vacche ed ogni ben di Dio. Accampavano dappertutto come le tribù degli zingari; sulla riva del mare era tutto un brulicame nero di gente, che mangiava, beveva, dormiva tranquillamente come se niente fosse; la banchina era presa di assalto, le osterie rigurgitavano, le scalinate delle chiese ne erano gremite, la piazza del Castello addirittura invasa. Per le vie non si camminava se non a furia di spinte, di calci, di gomitate, di maledizioni.

Come Dio volle arrivai al Distretto; gli ufficiali degli altri reggimenti aspettavano già di essere ricevuti. Il colonnello ci accolse affabilmente, ci disse che il giorno seguente ci fossimo trovati tutti alle otto del mattino e ci mise in libertà.

Un giorno intero di libertà. Oh la divina parola!...

II. 5z3n2e

Trascrivo queste linee da un taccuino di note prese così en amateur. La stanza grande del rapporto è riscaldata a 22 centigradi. Si soffoca. Il colonnello è seduto ad un tavolo separato ed ha alla sinistra il maggiore. Il capitano medico (bell’uomo, ancora giovine, baffi biondi e spiccata pronunzia toscana) è in piedi vicino al pantometro; noi tutti siamo seduti in circolo; sulla porta il piantone introduce gli inscritti che il maggiore chiama.

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— alacqua!...

L’infelice entra nudo come la mamma lo ha fatto; ho osservato che entrano tutti col capo basso, vergognosi, nella pudica posiziono della Venere dei Medici. Tutti gli occhi si fissano sul povero diavolo avidamente, esaminandolo, pesandolo, analizzandolo, squartandolo quasi per veder come è fatto; l’ufficiale dei bersaglieri gli misura a vista il torace, quello di cavalleria gli esamina le coscie e l’inforcatura, quello d’artiglieria il sistema muscolare delle braccia e delle gambe; quelli di fanteria invece lo guardano coll’indifferenza di coloro che, belli o brutti, sono obbligati a prendere quelli che loro si danno.

alacqua, nella pudica posizione sopra descritta, si ferma peritoso sulla porta.

— Venite avanti, giovanotto, venite avanti!

Il povero diavolo si avanza tremando; ha il viso, il collo e le mani color di certe terrecotte antiche, i piedi assolutamente neri e di una grandezza inverosimile, il corpo bianco.

— Ti raccomando quelle basi granitiche, — mi dice Rosati indicandomi i piedi di alacqua.

— Vi chiamate alacqua?

— Sissignore.

— Che mestiere?

— Contadino.

— Sapete leggere e scrivere?

— Nossignore.

Il capitano medico lo fa mettere sul pantometro e il sergente lo misura.

— Uno e cinquantasette.

— È piccolino!...

Il capitano gli misura il torace.

— Ottantuno.

Gli ufficiali di cavalleria, di artiglieria, dei bersaglieri, non lo guardano nemmeno più, non è roba per loro.

Il medico lo dichiara abile.

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— Mi pare che sarebbe il caso di metterlo in fanteria... — dice il colonnello.

— Direi anch’io.... — risponde il capitano.

— Bè! qual’è il reggimento più anziano?

Io mi alzo.

— Questo giovanotto è suo.... — e sorride malignamente.

— Tante grazie!

Mi seggo e segno alacqua sul mio taccuino non senza fargli il relativo pupazzetto. Gli altri amici, di nascosto, mi danno la baia.

— Bel pezzo di giovine, per Dio!

— Peccato che abbia le gambe storte!

— Se sei buono a trovargli un paio di scarpe che gli vadano bene, ti pago un pranzo!

— Aspettate, aspettate, rispondo io, ce ne sarà per tutti!

***

— Kyrieleyson!

Tra le risate generali suscitate dalla bizzaria del nome, entra un pezzo d’accidente che sembra l’Ercole Farnese senza la clava.

— Cristo, che muscoli! E quello se ti tira un pugno sai dove ti manda? dice Rosati. Tutti ammiriamo quelle forme atletiche, tanto più che il nome di sacrestia faceva invece prevedere un.... sacrestano.

Mori, il tenente dell’artiglieria da montagna, si alza in piedi e lo degna di un serio esame.

Il medico lo misura. Altezza 1,85, torace un metro.

— Questo lo piglierei io, — dice Mori.

Nessuno pensa a contestarglielo; non c’è che dire, Kyrieleyson è fatto apposta per portare un cannone sulle spalle.

[49]

— Va bene. Artiglieria da montagna. Andate pure.

***

Il colosso scappa tutto allegro battendo le mani.

Accadono delle scenette curiose; quando si alza Robecchi di Genova-Cavalleria il povero diavolo che è sotto l’antropometro si mette a piangere.

— Cosa c’è da piangere? — gli fa il capitano pigliandogli il ganascino.

Signor Capitane i’ nun ce voglio ij in cavalleria....

— E perchè?

Perchè so’ cinc’anne...

— Ci vuol pazienza, figlio mio.

Signor Colonnello per l’amor de Dio! — e volge intorno a tutti noi uno sguardo disperato, invocando il nostro soccorso.

Ma Robecchi lo ha notato sul taccuino e cerca di consolarlo....

***

Chi ha assistito una mattinata intera all’assegnazione, esce di lì con molte convinzioni profondamente scosse, la prima tra le quali quella che l’uomo sia il più bello degli animali: che sia un animale sta bene, ma il più bello poi!...

Perchè bisogna pure ammettere che un uomo brutto è sempre inferiore ad un animale bello, sopratutto quando l’intelligenza si pareggia. Basta, ho assistito allo sfilare di una nudità maschile che non era in verità tutta composta di Antinoi, anzi!...

[50]

Quanto avrei pagato ad essere in quel momento l’illustre Mantegazza!...

Quello che è positivo è che ci hanno tenuto lì quattro ore senza rivolgerci una parola a noi di fanteria, e alla fine il colonnello, che è senza dubbio una persona intelligente, ci ha dispensato dall’assistere per l’avvenire a quella cerimonia soffocante e poco profumata.

— Tanto per quello che ci fanno qui, lor signori!... — ha detto sorridendo.

— Sicuro, ha ragione, per quello che ci facciamo!... Siam come il due di briscola!

***

Mentre queste scene accadono nella sala dell’assegnazione, nella saletta attigua quelli già visitati si rivestono dei loro panni, allegri o tristi secondo le diverse sorti e scendono in cortile lasciando il posto agli altri. Davanti alla porta del Distretto la folla è enorme; la sentinella, gli uomini di guardia non sanno come fare a tener sgombro il aggio, a far stare indietro tutta quella gente. Le prime file sono tutte formate di donne, le mamme, le sorelle, le mogli dei coscritti, che aspettano di vedere i loro cari, di udire la loro sentenza. Ogni momento sono addosso alla sentinella che ha la consegna di non lasciar are nessuno.

— State indietro, buone donne, state indietro....

— Ma non vedete che spingono?...

— State indietro vi dico; cosa volete vedere qui davanti?... Tanto non vedete nulla.

Ma sì, è lo stesso che parlare al muro; tutte vogliono vedere, tutte hanno qualcosa da domandare al caporale ed ai soldati di guardia.

— Fatemi il piacere — dice una vecchia piangendo — chiamatemi un momento Giovanni Piscitiello.

[51]

— Non si può.

— Un momento solo per sapere dove l’hanno messo.

— Ora lo saprete, a momenti scendono — dice il caporale.

La folla si acqueta, ascolta i rumori che vengono dall’interno del quartiere. Scendono! Scendono! si sente lo scalpiccìo di molti piedi per le scale; le donne si raccomandano a tutti i santi.

— Largo, largo!

a un drappello di coscritti che vanno al Castello accompagnati da un sergente e da due caporali.

La folla si divide; è un vociferare altissimo, un chiamare e rispondere affrettato, un agitar di mani, di braccia, di fazzoletti; nella confusione si distinguono le parole di abile, rivedibile, fanteria, bersaglieri che sono su tutte le bocche. Le mamme si gettano arditamente tra le file del drappello e riempiono di pane, di fichi secchi, di forme di cacio le tasche dei figli, come se andassero in Siberia. Il sergente si fa in quattro per riordinarli, per metterli a posto, per mandarli avanti.

— Che reggimento? Che reggimento?

— 5º fanteria.

Il drappello è uscito dalla piazza.

Ad uno ad uno escono tutti e dieci, accolti dallo stesso schiamazzo di voci assordanti e la piazza si comincia a spopolare; tutti i parenti dei coscritti seguono i drappelli al Castello confusamente.

L’ultimo a uscire è il drappello accompagnato dal sergente di cavalleria, che solleva un uragano di pianti, di imprecazioni, di interiezioni, di bestemmie.

— Cinque anni! poveretti! cinque anni!

E il numero fatale è ripetuto tra i singhiozzi, dal gruppo delle mamme e delle comari.

[52]

III. 435l34

Siamo nel magazzino del Distretto; una vecchia chiesa ridotta a quell’uso, dove è un potentissimo tanfo di rinchiuso, un forte odor di pepe, di olio rancido, di cuoiame.

I drappelli degli inscritti sono allineati contro al muro e hanno dinnanzi a loro il rispettivo ufficiale e i graduati, i piantoni vanno e vengono carichi di scarpe, di biancheria, di cappotti, di zaini, di kepy; i furieri scrivono, il maggiore eggia, gli ufficiali contabili sorvegliano le distribuzioni. Ogni dieci minuti la voce del maggiore echeggia sotto la volta altissima.

— Silenzio per Dio! facciano far silenzio!

C’è una stanzetta apposta per la distribuzione delle scarpe; i drappelli entrano uno per volta, si mettono contro il muro; i coscritti si tolgono le scarpe e mettono i piedi nel pedometro di legno; certi piedi e certe calze!... Il sergente dice i numeri: due paia del 27 due del 28, quattro del 29, tre del 30 e uno del 31.

Il piantone porta le scarpe e le distribuisce, i coscritti le misurano; subito comincia la litania delle lamentazioni.

— Sor tenente mi vanno larghe....

— Sor tenente mi vanno strette....

— Cambiatele tra voi due, vediamo.

— Sor tenente mi fanno male.

— Dove? Cambiatele anche voi con queste qui.

— Sor tenente son troppo grandi....

— Sor tenente son troppo piccole....

— Eh! andate al diavolo! Un momento, un po’ di pazienza sacr...! Con quella zampa lì ci vuol altro che il 27! Caporale, dategliene un paio del 30.

Dopo un’altra mezz’ora di cambiamenti nessuno reclama [53] più, le scarpe finiscono per andar bene e si ritorna nel gran magazzino dove distribuiscono il resto.

Ricominciano le misurazioni degli oggetti di panno; una scena comica; a certuni piccoli son capitati dei cappotti che toccano in terra, che li fanno parere impiegati delle pompe funebri; a quelli alti dei cappottini che fanno ridere, colle maniche che arrivano al gomito. Non parliamo dei pantaloni di panno e di tela, veri abissi di roba nei quali, a cascarci dentro, non c’è più da cavarci i piedi. Le litanie continuano. Il tenente, il sergente, i caporali, tutti intorno a questi poveri diavoli a spogliarli, a rivestirli cento volte in un minuto, abbottonando e sbottonando giubbe e cappotti, voltandoli e rivoltandoli e tirandoli in tutti i sensi.

— State dritto per Dio! Cosa guardate? lasciate guardare a me! Se non vi sapete vestire sfido!... tirate su quei pantaloni.... più su.... già sono un po’ lunghi.... levatevi quel cappotto....

Finalmente ci siamo: si a alla distribuzione della roba minuta, il sacchetto degli oggetti fuori d’uso, il sottogola, la nappina, il ginocchiello. Ad ogni oggetto nuovo che si distribuisce, i coscritti cascano dalle nuvole, si guardano in faccia meravigliati, ci ficcano dentro le dita, lo voltano in tutti i sensi. I caporali, gli appuntati danno le spiegazioni sorridendo.

— Questi sono i sacchetti per il sale, questi sono i sacchetti per le gallette....

— Cosa sono le gallette?

— Lo vedrete al Reggimento che cosa sono!

La distribuzione è finita; i coscritti mettono tutto nel telo da tenda, fanno un gran fagotto, se lo buttano sulle spalle e via al Castello....

E così tutti i giorni....

[54]

IV. 4j605j

La partenza da Barletta ed il viaggio da Barletta a Palermo non sarò capace di dimenticarli cami cento anni.

Dopo un mese di dirozzamento, di marcie e contromarcie dal Castello al Distretto e viceversa, di istruzione individuale sulla piazza del Molo, i soldati s’erano un po’ svegliati, marciavano di già quasi al o per due e per quattro; molti anzi portavano già l’uniforme con qualche spigliatezza, inclinavano il berretto a destra come i soldati anziani, stringevano a più non posso la martingala del cappotto. Il giorno della partenza li misi in rango al Castello, li ai in rivista, feci un mondo di raccomandazioni sul modo di contenersi durante la lunghissima marcia e via....

Alla stazione bisognò farsi largo con i pugni, con i gomiti, con gli urli, colle minaccie, per potere entrare sul piazzale; le donne si gettavano tra le file, costernate, piangendo, portando ai figli dei sacchi pieni di pane e di vivande; tutti entravano nei ranghi, fratelli, sorelle, compaesani. Una disperazione.

— In rango per Cristo!... — urlavo io.

Il sergente, i caporali, gli appuntati, persino il mio attendente percorrevano di corsa tutta la colonna per rimettere a posto gli sbandati, per cacciare dai ranghi gli intrusi.

Finalmente si riuscì a penetrare nella stazione, a mettersi in ordine sotto la tettoia aspettando il treno: molti coscritti piangevano.

La folla rimasta di fuori si addensava contro lo steccato urtandosi come le onde di un mare in burrasca; le mamme in prima linea si aggrappavano alle aste, chiamando [55] i figli a voce alta, pregando, supplicando di lasciarli loro vedere ancora un minnto, per un bacio solo....

Il treno stava per arrivare.

Ad un tratto sotto lo sforzo enorme della folla una parte dello steccato si ruppe; subito un fiotto umano si riversò sulla banchina dilagando come un torrente che straripi; nessuna forza avrebbe potuto respingere quella folla quasi tutta composta di donne. Bisognò rassegnarsi a lasciarla entrare, limitarsi a serrar di più le file coi graduati. Io ero all’estrema destra; la folla mi stringeva da tutte le parti, tutti mi supplicavano piangendo, ringraziando, benedicendo: arrivavano sempre donne cariche di vettovaglie, di maccheroni, di bottiglie di vino, di sigari.

— Sor tenente mio, vi raccomando mio figlio....

— Sta bene, non abbiate paura.

— Sor tenente mandatelo in licenza per Pasqua...

— Sì, sì, li manderemo tutti....

Finalmente arrivò il treno; un treno lungo e nero come un serpe. Quando dopo un buon quarto d’ora di fatica, i coscritti furono tutti dentro, il popolo diede l’assalto al treno; le predelline erano zeppe di gente; dagli sportellini continuavano a are vettovaglie, pane, vino, sigari, continuava lo scambio dei saluti a voce alta, i pianti delle mamme. Invano la cornetta squillava, invano il conduttore badava a gridare: Partenza!... Nessuno si muoveva. Finalmente un po’ colla persuasione, un po’ colla forza si riuscì a far discendere tutta quella povera gente dalle predelline.

Ispezionando i vagoni occupati dai miei coscritti e ripetendo le esortazioni già fatte di non scendere a nessuna stazione, vidi un piede umano uscente di sotto a una panchina.

— Cosa diavolo c’è? — dico.

Afferro il piede e tiro.

Un coscritto pallido come un cencio, si alza in piedi.

— Signor tenente è mia madre.

[56]

— Vostra madre?

La povera vecchia era uscita fuori dall’incomodo nascondiglio tutta spaventata, colle lagrime agli occhi.

— Per l’amor di Dio, sor tenente, non ci dite niente a mio figlio. La colpa non è sua; sono stata io... per accompagnarlo fino a Bisceglie.

— Scendete, buona donna, scendete!...

— Mi lasciate dare un altro bacio a Pietruccio mio?

— Sì, ma fate presto, che si parte....

La vecchia baciò ripetutamente Pietruccio raccomandandogli di star buono, di voler bene al signor tenente....

— Presto sacr...! — gridava il capo stazione.

La presi per la vita e la deposi a terra; mentre scappavo per raggiungere il mio scompartimento, ella mi corse dietro, mi afferrò una mano, me la baciò e poi mi infilò nel braccio una corona di fichi secchi.

— Prendete signori’ — non ci ho altro....

L’ultimo fischio e subito la locomotiva si mise in moto; i soldati cantavano, quelli ai finestrini sventolavano i fazzoletti: dalla banchina, dalla strada, dalle siepi fiancheggianti, un urlo immenso rispose, un grido d’addio, di angoscia straziante.

Quel treno lungo e nero come un serpe strisciava sulle rotaie metalliche mettendo un fischio continuo, acuto, come il dolore di tutte le madri che egli si lasciava dietro piangenti....

I soldati cantavano....

[57]

CAMBIO DI GUARNIGIONE 1r2u2o

Nessuno, nemmeno i vecchi del paese, si rammentava di aver visto tanta gente sulla Piazza del Duomo come in quella domenica che la musica del Reggimento suonava per l’ultima volta. Nella cittaduzza era fin dal mattino un’agitazione vivissima; la piazza era imbandierata, il Caffè del Centro e quello della Prefettura erano a sera sfarzosamente illuminati in onore del Reggimento partente.

Dalle otto finestre del Circolo Sociale che gettavano sulla folla sottostante otto grandi zone luminose, partiva il rumore confuso ed allegro di un banchetto.

Erano i notabili del paese che avevano offerto un pranzo d’addio agli ufficiali, pranzo che doveva terminare in una gran festa da ballo.

Le vie tutte della città formicolavano di soldati, il colonnello aveva fissato la ritirata alle dieci e concesso un’amnistia generale ai consegnati e ai prigionieri. E nelle strade era un viavai, un chiamarsi e un rispondersi, un [58] aprire e un serrare di usci, un vocìo animato, un pispillorìo allegro, un tintinnìo di bicchieri uscente dalle porte aperte delle osterie. Sulla piazza la musica suonava assai bene la Sinfonia del Barbiere, ma nessuno vi badava, assorto nella grande preoccupazione del domani, dominato suo malgrado da un’emozione dolce di cui non sapeva spiegarsi la causa.

Sotto il portico militari e borghesi eggiavano a gruppetti di tre, di quattro, a braccetto, parlando vivacemente, intorno al palco della musica altri capannelli si formavano tra i soldati e le duecento ragazze della filanda, quasi tutte malinconiche, quasi tutte pallide del pallore smorto di chi vive in un ambiente viziato; ma tutte vestite con cura speciale, con una pretensione di eleganza. I fazzoletti rossi del collo e i garofani fra le treccie, alla luce raddoppiata del gas e dei lampioncini alla veneziana, gittavano sul quadro tinte vivaci.

Su, nel gran salone del Circolo, il frastuono cresceva ed usciva a ondate, insieme ad una nebbiolina luminosa, dai grandi finestroni spalancati. Era l’ora dei brindisi. Squarci di frasi sonore avano di tanto in tanto sul capo della folla accalcata sotto al circolo bianco della luce elettrica uscente dall’ampio portone medioevale; la folla avida tendeva l’orecchio, si rizzava sulla punta dei piedi, elettrizzata da certi applausi lunghi, da certi battimani fragorosi che echeggiavano sulla piazza.

Di fronte, sulle pareti nude di vecchio convento del Palazzo della Prefettura, in uno dei grandi scacchi di luce proiettati dalle finestre del Circolo, si disegnavano, straordinariamente ingrandite, le ombre dei brindatori. Ad un certo punto la folla riconobbe un’ombra voluminosa dalla testa caratteristica, con lunghi baffi appuntiti.

— Il colonnello!... parla il colonnello!...

Sul muro l’ombra faceva gesti vivaci con un braccio levato in alto che teneva il calice dello Champagne e l’altro che si agitava in una mimica eloquente. Poi, tra [59] un uragano d’applausi, l’ombra sparì ed un’altra più snella, più esile, apparve nel quadrato del muro, timidamente.

— Il tenente Polvani!

Era lui, il soldato-poeta, il brindatore immancabile, l’artista gentile per cui le signore e le signorine della piccola città avevano sempre avuto un debole. Parlando, la sua ombra si agitava, le sue braccia avevano larghi gesti drammatici. La musica taceva, tutti tacevano; di tratto in tratto una strofa alata gittava su quella folla ascoltante un soffio di poesia, una vampata di entusiasmo.

Polvani improvvisava; c’erano nella sua voce dolce, inflessioni carezzevoli, slanci lirici di tenore.

Le sue ultime parole furono coperte da applausi furiosi.

Il pranzo era finito. Nella zona bianchissima della lampada elettrica la sfilata dei banchettanti incominciò mentre la musica attaccava un valtzer allegro; la folla fece largo. arono sorridenti il Sottoprofetto, il Sindaco, il Colonnello, gli ufficiali superiori: ancora applaudito, ancora festeggiato, Polvani scendeva attorniato dai giovanotti del paese, dai suoi compagni; e il rumore argentino delle sciabole battenti sul lastrico copriva il trillo vellutato dei flauti, gli squilli olimpici delle trombe. In un momento il Gran Caffè del Centro rutilante di luce, fu invaso dai banchettanti, le signore in giro per la piazza accorsero a sedersi intorno ai tavolini di ferro sotto al padiglione chinese illuminato a lampioncini multicolori.

La musica suonava....

***

Ma nelle altre straducole della città, nel buio misterioso dei viali di circonvallazione, sotto i grandi platani di porta S. Giorgio, altre scene sentimentali, altre cose succedevano. [60] Si vedevano porticine e finestre schiudersi misteriosamente e confuse silhouettes di militari uscire ed entrare; di tanto in tanto, sotto la luce rossigna di un fanale a petrolio, una coppia ava rapidamente, un’altra si fermava.

Era l’ora suprema degli addii, l’ora degli ultimi baci, delle ultime promesse. Quanti drammi d’amore in uno spazio così piccolo, quanta tenerezza in quella semi oscurità misteriosa e discreta!...

Nel portoncino buio Nennella e Giuseppe Lo Cicero si tenevano abbracciati strettamente.

Nennella piangeva: un affanno grande le opprimeva il petto come un peso enorme e l’afferrava alla gola. Il triste momento della separazione era venuto: non si poteva far nulla per differirlo, nulla per scongiurarlo. E Peppino badava a consolarla carezzandola amorosamente sulle guancie umide di lacrime.

— Giurami che ritornerai, giurami che non amerai mai altre che me! — diceva Nennella singhiozzando.

Peppino si metteva una mano sul cuore. In buona fede egli giurava: e poi perchè negare a Nennella quest’ultima soddisfazione?

In fondo era commosso anche lui: quella buona fanciulla gli aveva voluto un gran bene; era lei che lo aveva salvato tante volte dalla consegna rammendandogli i pantaloni di tela e la biancheria, cucendogli i bottoni del cappotto, lei che quando egli era di guardia gli portava di soppiatto i sigari e le castagne arrosto; lei che gli scriveva le lettere per la mamma lontana, certe lettere piene di sentimento e di amabili sgrammaticature. Povera Nennella!

E le accarezzava il mento pienotto.

In distanza le trombe squillavano le note di un’arietta popolare ben conosciuta:

Addio, mia bella, addio....

e la fanfara si avvicinava, seguita dalla musica, ripetendo [61] il ritornello birichino della canzone, mentre una gran folla di soldati e di popolo traeva dietro al o, in una pittoresca confusione di colori.

— La ritirata! — disse Peppino Lo Cicero, baciando sui capelli Nennella — bisogna che torni in quartiere....

Nennella scoppiò in singhiozzi gittandogli le braccia al collo: quella brutta parola «Addio!» non la voleva pronunciare: era possibile che il loro amore dovesse finire così?

E frattanto il ritornello della fanfara le ronzava nelle orecchie vieppiù distinto con un tono canzonatorio che la indispettiva:

Addio, mia bella addio

l’armata se ne va....

Si scambiarono così gli ultimi baci disperati nell’oscurità umida di quel portoncino: pareva che non si sapessero distaccare l’uno dall’altra.

Venti volte Lo Cicero uscì sulla strada risoluto ad andarsene e venti volte ritornò indietro per un’altra stretta di mano, per un altro bacio.

— Tornerai davvero, Peppino?

— Sì, Nennella, in parola d’onore.

— Ricordati!

La ritirata e la musica erano di già lontane: bisognava spicciarsi per non ritardare.

Lo Cicero prese una risoluzione eroica: strinse per l’ultima volta Nennella piangente, disperata e le disse:

— Vieni alla stazione domattina alle quattro, hai capito?

E fuggì.

Dalle viuzze laterali, dai viali ombrosi, dalla campagna, altri soldati, altri fantasmi scuri si avviavano frettolosamente verso il quartiere; erano dieci, erano cento, erano duecento; sbucavano dalle case e dalle osterie, da certe porticine nere dove una forma indecisa rimaneva nel vano dell’apertura.

E camminavano a testa bassa, commossi, pallidi, come spinti da una forza maggiore, verso la gran massa bruna [62] del quartiere che spiccava severamente nella chiara serenità della notte.

La cornetta del sergente Ruggeri, in mezzo all’accompagnamento dei bassi, squillava altissima le note beffarde della canzone:

Addio, mia bella, addio...

***

Era ancora buio quando la stazione fu invasa dalla folla: la stazione era piccola e soltanto pochi privilegiati avevano l’onore di eggiare sulla spianata, di girare per le sale d’aspetto. La gente stava tutta di fuori, sul piazzale, sotto i viali delle acacie; una folla variopinta in cui l’elemento femminile predominava. Faccie annoiate, faccie insonnolite, faccie abbattute da una veglia allegra o penosa: occhi rossi di pianto e occhi gonfi di sonno. In mezzo alla piazza un crocchio immenso: gli ufficiali in tenuta di marcia colla sciarpa azzurra, colla borsa a tracolla, facevano gli ultimi saluti ai signori del paese, alle autorità, alla fine fleur del bel sesso, delle arti, delle lettere. C’erano i professori del liceo, gli studenti, molti avvocati; tra il Sottoprefetto e il Sindaco la faccia risoluta del colonnello aveva un tono cerimonioso e leggermente seccato.

E i capannelli si formavano e si disfacevano incessantemente come i circoli nell’acqua di un lago turbata dai sassi, mentre la macchina nera russava potentemente spalancando le due immani pupille rosse nella nebbia caliginosa.

— Si ricordino di noi!

— Li aspettiamo.

— Ci rivedremo a Roma, non è vero?

— E non si dimentichi di scrivere.

[63]

— Prenda un cognac!...

— Capitano, posso offrirle un caffè?

— Non si disturbi, grazie!

Le signore ancora in abito da ballo facevano circolo attorno alla moglie del tenente colonnello che viaggiava col reggimento.

Nel recinto della stazione i soldati su quattro righe cogli zaini a terra scambiavano cenni e saluti colla folla che si assiepava allo steccato.

La camla suonò. In un baleno ufficiali e soldati erano a posto: al segnale avanti! dato dalla tromba il lungo convoglio nero fu preso d’assalto.

La gente, commossa, guardava....

Due minuti dopo il mostro metallico lanciò il suo fischio potente: la musica suonò ancora una marcia, l’ultima. Dagli sportelli e dai finestrini, gli ufficiali e i soldati sventolavano i fazzoletti cercando avidamente nella folla una persona cara: mille braccia si tesero in segno di saluto, mille nomi, mille addii furono pronunciati. Il treno si mosse lentamente; la folla commossa salutava ancora quelle mille giovanezze fiorenti che partivano per sempre lasciandosi dietro tanti ricordi, tanti affetti.

Le fanciulle piangevano.

Pallida, scarmigliata, Nennella traversò la folla come un razzo e si gettò sullo steccato. Il treno era ancor vicino: Peppino Lo Cicero aveva sventolato il fazzoletto. Voleva salutarlo ancora, voleva correre a stringergli la mano, ma era tardi.

Il lungo convoglio nero filò via sbuffando mentre salivano nell’aria, insieme alle note della musica, le canzoni melanconiche dei soldati e la stridula, infernale cornetta del sergente Ruggeri copriva tutto come una risata squillante:

Addio, mia bella addio....

[65]

IL SEGRETO DI ROSARIO 3j1g5u

Il corpo di guardia del piccolo e vecchio forte di Serre la Garde che sorge sui fianchi dirupati del contrafforte d’Ambin, è una stanzetta rettangolare malamente illuminata da tre finestre a feritoia e contiene appena le quattro brande per i soldati, un tavolo, due panche e una stufa di ghisa messa in un angolo che serve anche da unico fornello per la cucina. Un corpo di guardia come tanti altri, colle pareti sudicie e coperte di iscrizioni e di figurine tutt’altro che ortodosse, con una fumosa lucerna a olio, una pala e una scopa in un angolo e la tabella della consegna appesa al muro. La guardia si compone di un caporale e tre soldati e da una sola sentinella di giorno sullo spalto per sorvegliare la batteria ed impedire che estranei si avvicinino a prender piani, disegni e rilievi. Il piccolo forte, assai antico, è facilmente aggirabile in cresta e non ha altra missione che quella di fiancheggiare la fortezza di Exilles che sbarra più sotto la valle della Dora. La guardia, a causa della strada assai malagevole, [66] parte da Exilles fornita di viveri per quattro giorni e si rifornisce per altri quattro giorni a mezzo di uomini di corvée a cui viene consegnata anche la posta.

Il 29 di ottobre, mentre la neve cadeva giù a falde larghissime, avvenne il cambio della guardia: Rosario Esposito che faceva il numero uno, indossò il cappotto e andò a rilevare sullo spalto il suo camerata Chiodini che batteva i piedi gelati sulla neve camminando a bracc’arm.

— Finalmente! — disse Chiodini, con un sospiro di sollievo come vide la muta. E andò a collocarsi vicino alla garetta.

Si scambiarono la consegna a presentat’arm mentre i due caporali discorrevano tra di loro a bassa voce: poi Chiodini levò la baionetta tutta bagnata, l’asciugò col fazzoletto e tutta la muta se ne tornò frettolosamente nel corpo di guardia. Rosario Esposito rimase solo.

Mentre la neve cadeva fittissima dal cielo in fiocchi assai larghi, dal fondo della valle saliva la nebbia: una nebbia densa di un grigiore plumbeo che copriva il paesaggio intorno come una cortina. Rosario entrò nella garetta, si strinse ben bene nell’ampio cappotto da scolta sentendosi gelare il sudore addosso e correre per le vene un maligno brivido di febbre. Tra la nebbia vide ancora la guardia smontante che prendeva le armi e indossava lo zaino; udì qualche esclamazione, qualche raccomandazione dei rimasti ai partenti.

— Buon viaggio!

— Pigliate la scorciatoia!...

— Grazie, va bene!...

Poi riconobbe la voce forte di Pippo Mauri che gridava prima di richiudere la porta.

Salutateme ’a fornarella!...

La porta del corpo di guardia si chiuse e dal tubo che sporgeva dall’ultima feritoia, incominciò a sprigionarsi un fumo nero ed acre che il vento cacciava sotto al naso a Rosario, facendolo tossire.

[67]

La notte scendeva rapidamente, un mare d’ombra era davanti a lui, un vento freddo agghiacciava la neve appena caduta.

Rosario Esposito pensò con spavento alle due ore che avrebbe dovuto are così nel buio, tremante di freddo, raggomitolato in fondo alla garetta, schiaffeggiato dal vento che fischiava per i finestrini senza vetri; e per consolarsi cominciò a pensare al calduccio del corpo di guardia dove la stufa russava, dove nel padellotto il lardo del ragôut canticchiava dolcemente. Col caldo, con una bella fetta di carne e una buona razione di pasta ben condita, con un buon sonnellino il suo malessere sarebbe ato. Era un po’ di freddo, niente altro; non bisognava mica spaventarsi per così poco, diamine! Ci sarebbe mancato altro che ammalarsi ora che il capitano gli aveva promesso la licenza per Natale!

Il pensiero della licenza lo scuoteva, gli faceva rizzare il capo come ai cavalli l’odor della stalla vicina. Faceva mentalmente i calcoli; quattro giorni di viaggio per arrivare, due giorni per are il Natale a casa colla sua buona vecchiarella facevano sei: due per andare alla macchia della Ferrata a pigliare quella cosa che sapeva lui solo, otto. Poi bisognava far finta di partire per andare a Mezzobosco di nascosto a trovare Carmenella che l’aspettava col bambino. Ah! non gliela volevano dare Carmenella, la sua sorella di latte, perchè egli era figlio di un villano? Ebbene egli se l’era presa proprio il giorno prima di presentarsi al Distretto, ed ora il fratello parroco doveva venire alle buone, ora che c’era di mezzo il bambino. Ma intanto egli non aveva capito bene che cosa fosse andata a fare Carmenella dalla zia a Mezzobosco. Avrebbe voluto rileggere la lettera giuntagli quella stessa mattina, dove si parlava di un sotterfugio, di preparativi, di una chiesetta lontana dove un prete li avrebbe sposati di nascosto. Che bisogno c’era di tuttociò?

Non sarebbe bastato che egli si fosse presentato al fratello [68] Don Fulgenzio col gruzzolo in mano e gli avesse detto:

Don Fulgè embè mo’ è fatta, dateci à benedizione e buona notte?!...

Ma ora che ci pensava, come spiegare la presenza di quella grossa somma nelle sue mani? Rivelare la cosa voleva dire essere obbligato a dividere coi fratelli, mentre a lui conveniva tenersi tutto e far credere a una fortuna insperata cascatagli dal cielo, un terno al lotto, una vincita straordinaria.... Poi la somma era tutta in grossi ducati napoletani di sco II. Come cambiarli quei ducati senza destare sospetti? A Mezzobosco non ci sono cambiavalute e a Lauricella nemmeno. Bisognava andare a Napoli o tornare indietro fino a Roma, per convertirli a pochi per volta, dall’uno e dall’altro, in tanti biglietti di banca nuovi fiammanti: ci occorrevano troppi giorni, la piccola licenza non bastava. Allora? Rosario perplesso ritornava daccapo alle suo congetture e non avvertiva nei polsi e nelle tempia un calore insolito, un battito più accelerato, non avvertiva una grande debolezza alle giunture delle braccia o delle gambe, una stanchezza strana per tutte le membra.

Nella neve i piedi gli scottavano e le mani non sentivano più il freddo della canna del suo fucile: il cappuccio lo soffocava e lo abbassò: slacciò anche il cappotto da scolta esponendosi al freddo tagliente di quella serataccia da lupi.

— Queste due ore non ano mai? — pensò.

Gli pareva di trovarsi sospeso sopra un abisso in quel nebbione fitto che l’avvolgeva e gli toglieva quasi il sentimento delle cose: e fissava tenacemente le tre feritoie del corpo di guardia da cui una debole luce usciva, come se quei tre punti luminosi lo tenessero ancora attaccato alla terra. Aveva nelle orecchie un ronzìo fastidioso ed incessante, e la vista gli si appannava. Ricominciò a pensare, a far dei calcoli mentali: mille ducati a quanto potevano [69] equivalere in lire italiane? Non lo sapeva bene ma sentiva che erano una piccola fortuna. E se poi non li avesse trovati nella macchia? Se qualcheduno scavando li avesse scoperti? Impossibile, si sarebbe saputo subito nel paese, sua madre glielo avrebbe scritto. Poi non ci poteva essere che lui che sapeva il segreto, ora che il suo povero babbo era morto nella vigna all’improvviso, fulminato da un colpo apoplettico. Il segreto gli apparteneva, dunque anche il gruzzolo, secondo la sua logica di contadino. Finito il suo tempo avrebbe ingrandito la piccola terra, avrebbe preso con sè sua madre e Carmenella, avrebbero fatto i signori.... Ah! Ah! e Carmenella, la signorina Carmenella, la sorella del curato che era rimasta contadina nell’anima sotto la vernice dell’educazione che le avevano fatto dare a suo marcio dispetto, sarebbe stata sua moglie in faccia a tutto il paese, e i galantuomini di Lauricella si dovevano mordere le mani, si dovevano....

A questo punto parendogli che qualcheduno camminasse sulla neve uscì dalla garetta: un chiarore fioco si avanzava terra terra.

— È il caporale, — pensò con un sorriso di soddisfazione.

— Esposito! — chiamò la voce.

— Presente! — rispose Rosario.

— Venite, il rancio è pronto!

Rosario si gittò il fucile dietro le spalle e seguì il caporale barcollando come un ubbriaco.

***

Nel corpo di guardia ci si stava d’incanto: la stufa era incandescente; un buon odore di ragôut solleticava lo stomaco e le nari. Il caporale e i due soldati avevano disfatto [70] le brande, le avevano collocate vicino al tavolo dove ardeva un piccolo e sudicio lume a olio e mangiavano, chi seduto e chi sdraiato, la loro porzione di umido colle patate nel coperchio della gavetta.

Come Rosario comparve e depose il fucile alla rastrelliera Pippo Mauri e Gennaro Lo Fascio lo accolsero con delle esclamazioni allegre.

Rosà, te si arriscallato?

Tieni fame Rosà?

Hai fatto l’ammore a lu frische?

Ma caporal Catapano si alzò premurosamente prese una gavetta sulla stufa e la porse a Rosario che si avvicinava.

— Mettetevi questo in corpo, vi riscalderà subito!

È meglio de lu foche — aggiunse Mauri.

L’aggio fatt’io.... — disse con gravità Gennaro Lo Fascio.

Rosario Esposito si mise a cavallo della panca, trasse dal tascapane il cucchiaio di stagno e cominciò a mangiare lentamente provando fin dalle prime cucchiaiate un senso di sollievo; però nella pasta ci sentiva un sapore curioso, un po’ amaro. Anche il ragôut aveva lo stesso sapore.

Neh, Lofà? Tu che erba ci hai messo cca’ rinte? Tene ’nu sapore amare....

È la nebbia che te si’ magnate — rispose Lo Fascio ridendo.

Tutti risero e anche Rosario rise: ma non potè finir di mangiare e corse a gettarsi sulla branda sbottonandosi tutto, quasi soffocato.

— Che avete Esposito? — chiese il caporale avvicinandosi.

Me sento male capurà....

Allora anche gli altri scesero dalla branda e vennero intorno a Rosario che smaniava all’irrompere subitaneo della febbre.

Che te senti, Rosà?

[71]

Pippo Mauri gli mise una mano sulla fronte che scottava e disse gravemente:

Tene a’ frebbe.

— Mettiamolo a letto — ordinò il caporale.

Tutti e tre si misero a spogliarlo delicatamente guardandosi in viso un po’ spaventati; le carni del poveraccio scottavano come carboni ardenti, i tendini guizzavano nell’imperversare della febbre.

Come l’ebbero messo sotto le lenzuola, il malato balbettò appena intelligibilmente.

Tengo sete!...

— Dategli da bere, — disse Catapane a Pippo Mauri.

Acqua non ce n’era più: Pippo Mauri andò a riempire di neve la sua tazza di latta e la mise sulla stufa perchè si squagliasse. Poi come l’ammalato si chetò e parve dormisse, caporal Catapane disse a Lo Fascio:

— Voi domattina andrete a chiamare il medico ad Exilles.

Va bene capurà....

Fuori il vento era cessato ma la neve continuava a cadere fitta fitta, ce n’era di già uno strato di venti centimetri. Caporal Catapane mise la sua accanto alla branda di Rosario e vi si sdraiò sopra tutto vestito. Mauro e Lo Fascio si misero a cavallo alla panca vicino alla stufa, accesero la pipa e cominciarono a tagliare con un coltello certe castagne che mettevano poi a cuocere sul coperchio di ghisa arroventato, parlando a bassa voce, interrompendosi per mangiare quelle già abbrustolite.

Sta male assai lu piccirillo?

Tene ’a frebbe forte....

È state lu fridde....

Tacquero e deposero la pipa per mangiare silenziosamente le castagne. Erano due pastori di Massinico venuti su insieme, rotti alle fatiche della vita randagia, ma pigri come tutti i pastori.

De che paese è Rosario? — domandò Pippo Mauri.

[72]

De Lauricella, addò cce fanno a’ festa pe’ S. Agata.

Come le castagne furono finite si alzarono pieni di sonno e vennero alla branda di caporale Catapane che vegliava.

Capurà, jammo a dòrmere?

— Andate.

Rosario comme sta?

— Dorme.

Sperammoddio che se guarisce!....

— Speriamo, domattina a chi tocca la muta?

Tocca a me, — disse Pippo Mauri.

— Va bene, buona notte!

Bona notte capurà....

Due minuti dopo Mauri e Lo Fascio dormivano saporitamente.

Caporal Catapano si alzò, aggiunse altra legna nella stufa, uscì a prendere un’altra tazza di neve che fece squagliare e collocò sul tavolo vicino al malato. Poi abbassò il lucignolo del lume e si addormentò anch’egli vinto dalla fatica.

Sul piccolo forte perduto la neve cadeva silenziosamente.

***

Alle sette della mattina Pippo Mauri svegliò Lo Fascio: una sottilissima striscia di luce grigia penetrava a stento nel corpo di guardia: l’atmosfera era irrespirabile.

Vedendo che Lo Fascio seguitava a russare, Pippo Mauri si vestì adagio adagio e riaccese la stufa; poi andò alla porta per uscire, ma non gli venne fatto di aprirla per quanto spingesse. Aprì invece le imposte delle finestrine e vide la neve all’altezza della sua persona.

— Siamo in gabbia! — pensò. E svegliò il caporale e Lo Fascio. Unendo i loro sforzi riuscirono ad aprire uno spiraglio per il quale uscirono Pippo Mauri colla pala e [73] Lo Fascio colla scopa, sulla piazzuola della batteria c’era più di un metro di neve e nevicava ancora fitto fitto come la sera prima.

Subito caporal Catapane volle che si sgomberasse dalla neve la batteria, come era scritto sulla tabella della consegna, e si mise all’opera anche lui armandosi di un badile. Lavoravano tutti e tre di buona lena facendo a chi mandava la neve più lontana dallo spalto per riscaldarsi. Pippo Mauri sgomberava dalla neve la garetta e la piazzuola del cannone da 12, in barbetta.

Capurà, oggi nun se monta la sentinella?

— E perchè?

Co’ stu tiempo chi ha da venì? Li lupi?

— Non importa, è prescritto, — rispondeva Catapane inflessibile in fatto di servizio.

Col capural La Pietra quann’è stu tiempo nun se monta....

— E con me si monta invece.

Pippo Mauri abbassò la testa e continuò a lavorare. Ma Gennaro Lo Fascio sospese a mezzo la sbracciata per dire:

E io aggi’ annà a Exilles a chiamà lu dottore? Co’ ssa neve nun s’azzecca chiù à strada....

Catapane rimase pensieroso e contrariato: la nevicata non accennava a diminuire.

— Finiamo di sgomberare la piazzuola, poi vedremo.

Come la piazzuola fu sgombra Pippo Mauri montò in fazione e Lo Fascio e Catapane andarono intorno alla branda di Rosario Esposito che aveva aperto gli occhi e teneva la bocca spalancata per l’arsura delle fauci. Era irriconoscibile, tutto il volto ed il collo macchiato di piccole chiazze violacee, striate di sottilissime vene sanguigne.

Come stai Rosà?

Rosario scuoteva la testa disperatamente, comionevole a vedersi, con le labbra gonfie e quasi tumefatte.

[74]

Vôi bbeve? — Domandò Lo Fascio.

Rosario accennò di sì colla testa. Dopo che gli ebbero dato da bere, Lo Fascio chiamò in disparte Catapane e gli disse:

Mamma mia! E chillo se more!

— Bisogna chiamare il medico subito, subito!

E come se fa? — rispose Lo Fascio accennando con un gesto largo la vallata dove la neve continuava a cadere.

— Bisogna provare, Lo Fascio; volete lasciar morire così un povero cristiano, un vostro compagno?

Va bbene, io ce prove!...

Si legò le racchette alle scarpe, prese un bastone, il cappuccio e partì....

Caporale Catapane ritornò vicino all’ammalato che spasimava ora nell’atroce martirio di una sete inestinguibile ed emetteva un lamento infantile, continuato, doloroso, inframmezzato di tanto in tanto da qualche invocazione alla santa protettrice di Lauricella.

Sant’Agata mia, aiutateme! Sant’Agata mia si me guarisce t’accènno vinte cannele ’e quattro libbre! Mamma mia, me moro!

Caporale Catapane non sapeva come venirgli in aiuto; di già sentiva di aver commesso un’imprudenza a lasciar partire solo Lo Fascio con quel tempo orribile: avrebbe trovato la strada praticabile fino a Exilles, o avrebbe dovuto tornare indietro? Eppoi se anche fosse giunto a Exilles (e non vi poteva giungere prima di sera) il medico si sarebbe arrischiato per quella strada pericolosa sempre, inaccessibile addirittura ora con tutta quella neve? C’era da dubitarne.

Tuttavia sperava che almeno Lo Fascio giungesse ad Exilles per testimoniare, se non altro, che il suo dovere di caporale e di buon cristiano l’aveva fatto.

Intanto ebbe un’idea. Calmare la febbre di Rosario mettendogli della neve sulla testa. I dottori all’ospedale non adoperavano le vesciche piene di ghiaccio?

[75]

Dunque?.... Prese un asciugatoio e andò a riempirlo di neve che ebbe cura di premere colle mani perchè pigliasse una certa consistenza: poi annodando le cocche ne fece come una specie di guanciale su cui posò delicatamente la testa del malato; la neve si liquefaceva subito, correva per la branda a rigagnoli, bagnando le membra di Rosario che scottavano.

— Ti senti meglio?

Nu’ poche. Grazie!

Quando l’azione frigida della neve ebbe calmato alquanto la violenza della febbre, Rosario si sollevò sopra un gomito e sbarrò gli occhi in faccia a Catapane.

Capurà io saccio che moro prima de notte....

— Ma no. Che idee! Stai tranquillo, dormi, — rispondeva caporal Catapane tentando di sorridere, ma sentendo che qualcosa di tragico si avvicinava.

Allora Rosario Esposito, a parole interrotte gli disse tutto il suo breve romanzo con Carmenella, la sorella del curato del suo paese, e gli raccomandò il suo bambino che era insieme colla madre a Mezzobosco. E poi si fece giurare il più grande segreto su quanto stava per dire e gli domandò se voleva incaricarsi di eseguire il suo testamento.

— Il tuo testamento? — domandò Catapane meravigliato.

— Sì, una cassetta con mille ducati d’argento, che si trova sotterrata alla profondità di due metri dal suolo alla macchia della Ferrata, nella spianata centrale, sotto la terza quercia a sinistra segnata da una croce e da una cifra: D. Per mio figlio! — disse con voce fioca.

Catapane pensava che delirasse: ma Rosario aveva lo sguardo limpido e fermo, la voce debole ma sicura.

— Ce l’aveva nascosto mio padre quando era al servizio della baronessa Di Castro: per la paura del brigantaggio tutti sotterravano e nascondevano i loro averi: la baronessa li aveva divisi in varie cassette di ferro e li fece nascondere un po’ dappertutto.

[76]

«Ma ella era vecchia e sola: durante la rivoluzione la trovarono scannata nel suo castello e mio padre rimase possessore del segreto che rivelò soltanto a me come al maggiore della famiglia....

Aveva parlato molto e la fatica lo aveva prostrato: cadde in una specie di letargo.

Era mezzogiorno: dalla piazzuola della batteria Pippo Mauri chiamava il caporale.

Catapane si ricordò che non aveva il diritto di tenerlo tutto il giorno in sentinella e che nessuno aveva preparato il rancio. E andò a levarlo di fazione.

— Come sta? — disse Pippo Mauri entrando, accennando al malato il cui volto diventava sempre più nero.

— Sta male, molto male!

Povero Rosario! se more?

— Ho paura che non arrivi a sta sera....

Che male sarà?

— Temo che sia tifo.

Mamma mia!...

E corse a riscaldarsi alla stufa sbocconcellando avidamente un quarto di pane. A un tratto domandò:

E Gennaro Lo Fascio?

— È andato a Exilles per il medico.

Se fosse perduta la strada?

— Speriamo di no.

Embè, ma nun se magna, oggi?

— Fate il rancio voi, io non mangio per adesso.

Pippo Mauri mise sul fuoco una gavetta piena d’acqua con un pezzo di carne cruda e un pizzico di sale e si sdraiò sulla panca aspettando che l’acqua bollisse.

Capurà, nevica sempre?

— Sì.

Mannaggia l’arema ’e San Gennaro! E quando fernisce?

— Chi lo sa? — Rispose Catapane pensando a Gennaro Lo Fascio. Poi come il rancio fu fatto, si decise anch’egli per qualche cucchiaiata di brodo bollente e [77] sbocconcellarono insieme la razione di carne guardando di sottecchi il malato che non si muoveva.

La giornata ò tristamente così, accanto al letto del moribondo. Catapane non poteva chiuder occhio, angosciato da cento timori.

Verso sera, mentre Pippo Mauri russava tutto vestito, Rosario Esposito si rizzò per l’ultima volta a sedere sul letto, occhi schizzanti dall’orbita, la faccia carbonizzata. Accennava coll’indice della destra ad un punto lontano e disse a voce quasi inintelligibile:

— Nella macchia della Ferrata.... sotto la terza quercia a sinistra segnata da una croce.... Per mio figlio!

E ricadde sul guanciale stecchito.

Catapane prese dal tavolo la lucernetta fumosa e l’avvicinò al viso di Rosario: il viso era perfettamente nero, orribile a vedersi, e su quel nero il bianco delle orbite si dilatava spaventosamente.

— Mauri! Mauri! — chiamò Catapane con un singhiozzo nella voce.

Mauri balzò in piedi di scatto.

Che c’è, capurà?!...

— Rosario Esposito è morto!

— È morto?!...

Gli coprirono il viso col lenzuolo e si fecero il segno della croce. Poi il caporale si mise in ginocchio vicino alla branda e disse:

— Preghiamo per l’anima sua!...

Pippo Mauri s’inginocchiò colpito da un terrore superstizioso. Fuori, la raffica della neve si scatenava sul piccolo forte abbandonato e il vento ava giù nella valle con ululati sinistri. Il chiarore rossiccio della stufa illuminava di scorcio il triste gruppo, tragicamente.

[79]

CAMPO IN MONTAGNA 2r3n5y

Amica mia,

L’altra sera alle 10 e mezza il trombettiere di guardia ha suonato la sveglia.

A proposito: non ti ho ancora detto che ho lasciato la mia camera di Bousson per la tenda del campo. Che smemorato, mio Dio! Basta, ora lo sai; il mio battaglione è tutto accampato in collina, vicino ad un’umile cappella di montagna che si chiama la cappella Cuognetto.

Dunque, come ti dicevo, l’altro ieri sera alle dieci e mezza il trombettiere di guardia ha suonato la sveglia perchè alle undici si doveva partire per l’esercitazione notturna di combattimento al colle di Bousson.

Il maggiore ed i quattro capitani che erano andati a buttarsi sul pagliericcio alle otto e mezza, dormivano saporitamente; i subalterni invece giuocavano a scopa nella cappella che da ventidue giorni, ahimè! non echeggia più di sante preci, non odora più d’incenso per la semplice ragione che gli ufficiali vi hanno stabilita la loro mensa. Ti immagini la stranezza del contrasto, non è vero?

[80]

Figurati una tavola lunga e stretta che va dalla porta all’altare, intorno alla quale, due volte al giorno, sedici ufficiali, tutti giovani, pieni di vita, provvisti di un appetito formidabile, si seggono a mangiare.

Immaginati disposta in bell’ordine sull’altare, vicino ai candellieri di legno inargentato, a destra ed a sinistra del crocefisso, una fila di bottiglie di liquori, una piramide di tazze da caffè, una colonna di piatti e di piattini, un trofeo di posate rilucenti; immagina ancora, sempre sull’altare, disposti in un magnifico disordine, un vasetto di Liebig, due zuccheriere, tre o quattro bicchierini da cognac, una scatola d’aragoste in conserva, una bottiglia di ciliege sotto spirito, una pepaiola di legno, una pipa dimenticata. E poi, lungo i muri, un’infinità di quadri grandi e piccini, vecchie litografie e cromolitografie, infantili abbozzi di pittura, acqueforti del 700, incisioni in legno della vecchia scuola, abitini, ex voti, dagherotipi, cuori d’argento, e appesi agli stessi chiodi un impenetrabile, un mantello, una borsa-zaino, quattro o cinque salami. Vicino all’acquasantiera tra S. Girolamo e S. Filomena, pende un magnifico prosciutto e — cosa strana — i due santi hanno l’aria di volerne assaggiare, tanto lo guardano con aria ghiotta; quattro fucili in un angolo, casse, cassette e cassoni lungo il muro, un barile di vino ed una damigiana in fondo. Ci sei? ne vuoi ancora? Aspetta: una bandiera sventola fuori sull’angolo del tetto vicino alla croce di ferro; sulla destra della chiesetta fumano i fornelli di una cucina improvvisata, ricoperta di una intelaiatura di frasche; sul sagrato i soldati puliscono le marmitte e le stoviglie chiaccherando: e Tom, il magnifico setter del capitano Gola, schiaccia un sonnellino al sole.

Dalle 4 del mattino alle 10 di sera, la cappella è sempre aperta: all’alba gli ufficiali scendono a prendere il caffè uscendo dalla loro tenda, mentre le compagnie ano in rango per l’esercitazione; due soldati riempiono silenziosamente [81] le tazze che gli ufficiali sorbono silenziosamente, ancora un po’ addormentati ed a quell’ora immancabilmente di cattivo umore; la luce rossastra di due candele steariche lotta colla luce bianchiccia dell’alba che entra per la porta spalancata mettendo sul muro delle ombre stranissime.

Più tardi, quando i soldati e gli ufficiali si arrampicano allegramente pei boschi di pini e per le roccie di Punta Rascià o di M. Sises, per la piccola porta aperta entrano trionfalmente nella cappella il sole e le mosche come padroni assoluti. Il sole mette dei bagliori dappertutto con una munificenza di gran signore, accende scintille luminose sulle dorature dell’altare, sui candelabri, sul crocifisso d’argento; la lampadina pompeiana che pende dalla volta, luccica come se fosse d’oro; i cristalli delle bottiglie, dei bicchieri, hanno riflessi che abbarbagliano; nel pulviscolo biondo è una danza di insetti minuscoli, un rimescolio vertiginoso di piccolissime cose impalpabili, la polvere animata delle cose inanimate che il sole colora. Dalla porta spalancata entrano nell’umile chiesetta il sano profumo dei prati, il pispillorio allegro degli uccelli, il fruscio argentino della Ripa, tutte le voci confuse della montagna fresca e verde che sorride, che canta nel sole. Allora la cappella montanina, così trasformata, assume un’aria di festa colle sue bizzarre mescolanze di sacro e di profano; sembra una di quelle chiesuole descritte da Walter Scott, che i templari ed i frati guerrieri del ’300 costruivano qua e là nelle loro peregrinazioni avventurose per il mondo; par di essere ancora nei monti delle Calabrie ai tempi in cui le chiese godevano del diritto d’asilo. Anche i quadri sembrano meno orribili e le immagini dei santi in cromolitografia meno brutte! anzi c’è una testa di santa, uno studietto ad olio abbastanza riuscito, che in quella luce gaia assume una grande espressione di soavità.

In quell’ora e sotto la sorveglianza del grande Meano — il [82] direttore nato di tutte le mense — i nostri quattro armigeri lavorano ad allestire la tavola, ed il cuoco, intorno ai suoi fornelli, escogita qualche nuovo intingolo infernale per farsi maledire. È l’ora più tranquilla della chiesetta, abituata da gran tempo ai lunghi silenzi invernali, alle lunghe sieste estive.

Ma a mezzogiorno, appena si odono in distanza le trombe del battaglione che rientra al campo, la chiesetta è ripresa da una gran febbre di movimento di cui stupiscono assai i poveri santi così atrocemente calunniati ne’ quadri che pendono alle pareti.

Dalle vicine marmitte esala un caldo vapore succolento che penetra vivamente dappertutto; sulla tovaglia bianchissima si allineano i tre piatti dell’antipasto, dove i pomidori mettono la nota allegra e i peperoni la nota cupa del loro verde oscuro; nelle bottiglie di cristallo scintilla il vino rosso del Monferrato; le porcellane di Ginori, aristocraticamente filettate di azzurro, percosse dal sole, hanno una dolce trasparenza d’alabastro.

Il battaglione arriva preceduto dalla fanfara, il maggiore alla testa sempre fresco come se il calore di questo sole e l’affannoso salire di queste erte scoscese, non giungessero a strappargli dalla fronte una goccia di sudore; l’aiutante maggiore, rosso, sbuffante, , appoggiato all’alpen-stock che lo fa sembrare (meno la barba) uno di quei voluminosi pellegrini che dall’occidente si recavano in Italia per prendere parte alle crociate, nella speranza di dimagrire e di salvare il Santo Sepolcro. Seguono le compagnie in colonna di file per quattro, i soldati grondanti di sudore, leggermente curvi sotto lo zaino pesante, l’occhio nella certezza del rancio e del riposo. E gli ufficiali si fermano sul sagrato, si tolgono il kepì e la sciarpa, si asciugano il sudore, danno uno sguardo soddisfatto alla tavola apparecchiata, scoperchiano le marmitte in cucina, si preparano l’antipasto di pomidori in insalata, si seggono al loro posto sulle panche consunte [83] dove un giorno sedevano — e dove sederanno appena ribenedetta la chiesa — i fedeli montanari. Allora sembra di assistere ad uno di quei pantagruelici banchetti in cui, dal più al meno tutti fanno la parte di Gargantua. Nel primo quarto d’ora non si sente che l’acciottolio dei piatti e il tintinnar dei bicchieri e il diluviare delle mascelle che divorano a quattro palmenti: scodelle enormi di minestra spariscono come per incanto nei potenti ventricoli giovanili, bistecche e costolette inverosimili sfilano in un baleno; il direttore di mensa si guarda d’attorno spaventato. Poi, calmato il primo impeto della fame, gli scilinguagnoli si sciolgono eccitati dal vinetto razzente del Monferrato, ed i discorsi volgono tutti sulle peripezie della manovra mattutina, sulle erte salite, sulle discese a rompicollo, sui celeri aggiramenti che hanno deciso delle sorti della giornata.

Si discute sulle manovre che rimangono ancora a farsi, sulla festa del campo, sull’agognato ritorno alla guarnigione dove ognuno ha lasciato un’attrattiva segreta, un sogno inconfessato, una speranza che potrebbe divenire realtà. Alle frutta i discorsi cadono; le palpebre si fanno grevi; ognuno cerca mentalmente un angolo ombroso dove riposarsi: la tenda è un forno crematorio, la collina, tutta a grano, non ha un albero: ma qualcuno ha scoperto accanto alla Ripa un boschetto delizioso dove è dolce sognare cullati dal rumore dell’acque che si rifrangono sul macigni; qualcun’altro pensa al fresco sacro della cappella, all’ombra protettrice dei santi.... Dopo un’ora la chiesetta alpestre è diventata un dormitorio; dalla porta il sole non irrompe più, le mosche, nel buio ronzano allegramente e seccano i dormenti. Pei campi, dappertutto dove è un filo d’ombra, si veggono soldati sdraiati che dormono.

È l’ora della canicola.

[84]

***

Ma io al solito divago; perdonami; ti dicevo dunque che l’altro ieri a sera il trombettiere ha suonato la sveglia alle 10 e mezza.

Era una di quelle settentrionali serate di novilunio in cui le stelle nell’azzurro profondo hanno un raddoppiato scintillio che mette nel cielo come una diffusa luce opalina, impotente però a dissipare le tenebre che avvolgono la terra; una di quelle notti in cui pare di camminare col capo nella luce e coi piedi nel buio.

Allo squillo della tromba subito le tende si accesero; il campo, visto dal sagrato della chiesa, aveva un fantastico aspetto; sembrava un paesaggio intravisto in sogno, illuminato qua e là da interrotte luci trasparenti. Si udiva il vociare confuso dei soldati, si udivano i vari rumori di un campo che si ridesta; nella perlata serenità del cielo i monti parevano d’inchiostro e segnavano una linea di demarcazione brusca e dura. Gli ufficiali presero il caffè e raggiunsero le compagnie che si mettevano in marcia per il viottolo angusto e sassoso che conduce a Bousson.

Ad un tratto, appena dato l’ordine di accendere le lanterne da campo, parve che una processione misteriosa e solenne asse davanti alla cappella spalancata; dai prati un venticello assai fresco levava il profumo del timo; sotto i piedi dei soldati frusciava una piccola vena d’acqua corrente.

Si andava così, tastando il terreno colla punta del bastone, inciampando di tanto in tanto nei ciottoli del sentiero alpestre. A Bousson la processione delle lanterne divenne più lunga, smisurata, come un serpe.

Su, su in silenzio per la strada di Bonne Maison tra la [85] macchia nera di Cima Corbioun da una parte e i prati collinosi di Chalpes dall’altra; la strada si svolgeva in piccole giravolte, erta e sassosa, come il letto di un torrente, fiancheggiata dal rio Servierèttes che scintillava a tratti nell’ombra.

L’ascensione è durata due ore; tutti camminavano in silenzio come proseguendo ad occhi aperti un sogno incominciato; i congedandi di Teramo, di Orvieto e di Potenza pensavano certo alle loro notti meridionali di plenilunio, tutte scintillanti di astri e odoranti di fieni maturi, in cui è così dolce cantare gli stornelli paesani sull’aia e in mezzo alle vigne, e i richiamati di Pinerolo e di Vercelli sognavano certo la moglie e i bimbi lontani, aspettanti sulla soglia del casolare. Io, si capisce, pensavo a te e ai lunghi viali torinesi profumati di acacia, ai tortuosi viali del Valentino cosparsi di sabbia finissima, circondati di aiuole fiorite; pensavo al minuscolo e selvaggio giardino in cui le rose a spalliera, a fasci, a tralci, mettono come un’inebbriante inondazione di profumi che soffoca e assorbe gli altri profumi più modesti dei lillas, della verbena, dei gelsomini. E cercando di afferrare le inosservabili e cangianti sfumature del paesaggio notturno, involontariamente pensavo alle sfumature inafferrabili del tuo carattere e della tua bellezza strana; soltanto in certi occhi femminei la natura si compiace di riprodurre la tavolozza onde fa pompa colle cose del creato, soltanto in certe pupille di donna si trovano riprodotte le gradazioni di tinte onde ci appaiono così belli il cielo ed il mare. Ma tu, lo sento, mi accusi di lirismo, ed io smetto.

All’una antimeridiana eravamo alle Grangia delle Servierettes, vicino al lago Nero: un laghetto non più grande di una vasca, le cui acque contengono trote deliziose ed hanno di giorno uno strano colore di acciaio temprato al violetto. Ma in quella oscurità il lago non si vedeva ed in compenso il freddo ci serpeva per le ossa. Mi invidii eh! Nè ti riesce facile l’immaginare coi tuoi trentaquattro [86] gradi torinesi, che al 6 di luglio si possa tremare dal freddo?

Pure è così, soldati e ufficiali si erano ravvoltolati nelle loro coperte, imbacuccati nei mantelli, avevano dei fuochi qua e là preparandosi al bivacco; io anzi m’ero già addormentato col capo appoggiato ad uno zaino e mi ero incamminato per una serie di sogni bizzarri, fortunatamente interrotti dalla voce del maggiore che ci chiamava a rapporto.

La manovra incominciava; te ne dico il concetto in linee generali per non seccarti oltre misura.

Il nostro reggimento rappresentava il partito invasore scendente dai colli alpini e dirigentesi su Cesana per la valle di Servierèttes. Marciava in due colonne con una riserva di un battaglione per assicurarsi il possesso del monte Curbion dal quale poteva proteggere l’avanzarsi di grosse colonne sulla strada di Bousson. Il mio battaglione prese dunque tra i boschi a risalire il contrafforte che costeggia la riva sinistra del rio dello Servierèttes; per precauzione le lanterne erano spente, i soldati obbligati al più rigoroso silenzio. Non ti dico nulla di questa strana marcia di fantasmi nel buio, fra gli abeti ed i pini, per un sentiero sconosciuto; però verso le tre il cielo ad oriente si tinse di una pallida luce crepuscolare che ci guidava, e di minuto in minuto la luce facevasi più diafana e diffusa annunziando l’alba. Ad un tratto sulla nostra destra si udirono le prime fucilate; come per incanto il sonno e la stanchezza sparirono; eravamo in presenza del nemico. La marcia sul contrafforte durò ancora lunga e penosa; erano oscuri valloni da valicare e scoscese pendici da risalire tra i cespugli densi di rododendri fioriti, stillanti di rugiada, ma il crepitare dei moschetti alla nostra destra cresceva di intensità e da lontano tuonava il cannone.

Di minuto in minuto ammonitore.

Ad un tratto, giunti sopra un ripiano tondeggiante, la [87] tromba del comando tuonò l’alt e tutte le trombe risposero. Erano le 5 antimeridiane: in un’apoteosi di nuvole dorate il sole sorgeva illuminando le nevi del Chaberton, del Pelvo, della Rognosa e di Fournières; tutto ritornava alla vita: nel venticello fresco i grandi pini svettavano frusciando, e i fiori rialzavano nel sole le loro coppe profumate, avide di un bacio caldo. Tu che prolunghi pigramente i tuoi sonni di fanciulla sognatrice, fino alle ore tarde del mattino, non saprai mai che cosa splendidamente luminosa sia una levata di sole a 2000 metri di altezza, su queste montagne verdeggianti e fiorite. Basta, non insisto su ciò anche perchè mi riconosco colpevole di aver dormito di fronte alla sublime poesia di tale spettacolo.

Salto quindi di piè pari la descrizione del bivacco: alle sei e mezza eravamo di nuovo in marcia sentendo il contatto del nemico senza vederlo. Finalmente dalle alture che dominano le Grangie di Chalpes, la prima compagnia aperse un fuoco di fila sui kepy bianchi ammassati nella valle. Si iniziò quasi spontaneamente da tutti, per una di quelle rapide e felici intuizioni di cui ogni uomo sentesi capace in certi momenti della vita, un movimento aggirante verso sinistra che ci portò ad un tratto sul fianco del nemico. Le nostre truppe erano schierate sopra un anfiteatro di alture nel cui fondo verdeggiavano le umili case di Chalpes occupate dai battaglioni del partito bianco; un fuoco di fila ben nutrito che durò parecchi minuti decise l’avversario a ripiegare.

Allora una tromba lontana squillò: Avanti!

D’un balzo la lunga linea che coronava le alture si precipitò al basso saltando siepi, fossati, precipizii, fermandosi sopra un altro altipiano a 200 metri dal nemico, aprendo un micidialissimo fuoco a ripetizione.

La tromba squillò ancora:

Attenti per l’assalto!

Una voce stentorea urlò la parola che strappa il glorioso [88] grido di: Savoja! ai soldati, che li lancia ad occhi chiusi contro i cannoni e contro le bocche dei fucili.

Alla bajonetta!!...

Fu un urlo immenso che tutte le valli ripercossero a lungo, poi la densa linea si precipitò dalle alture come un torrente umano, sfrenatamente. Nessuno vedeva più nulla, nessuno sentiva più nulla all’infuori di un gran bisogno di correre, di gridare.

Alt! squillarono le trombe.

Alt! gridarono gli ufficiali.

Zaini a terra!

La battaglia era finita: il sole saliva trionfalmente sulla cima del Chaberton in tutto il suo splendore.

Bousson, 8 luglio 189...

[89]

PRIMA GUARDIA (Ricordi di un Volontario). 2o67

Montai la prima guardia con un entusiasmo grande; a diciassette anni, anche essendo soldati, si è ancora ragazzi; ogni più semplice atto della vita acquista un’importanza enorme: l’esistenza ha ancora tanti misteri a diciassette anni! Avevo perduto mezz’ora a lustrare la giberna, i bottoni di stagno del cappotto avevano bagliori d’argento; la stella del kepy scintillava al sole come un disco luminoso; se avessi dovuto correre dall’Elvira non avrei curato maggiormente la mia tenuta.

Ero inappuntabile.

In camerata, dopo il secondo rancio, lucidando coll’osso il cinturino bianchissimo, riandavo colla mente i varii paragrafi del servizio territoriale circa i doveri della sentinella.

Sono tanti, mio Dio, quei benedetti doveri!...

Catapano, vicino a me, disse togliendo il fucile dalla rastrelliera:

[90]

— Stassera c’è la guardia al morto.

— Che morto?

— Come che morto? Se tutto il quartiere lo sa a quest’ora!?

Io lo guardava meravigliato; non sapevo nulla io.

Allora Catapane mi raccontò che al mattino, mentre la truppa era in piazza d’armi, il furiere maggiore Giacometti si era ucciso con un colpo di carabina al cuore.

— Giacometti! Quel bel giovane alto dai baffi biondi promosso alla fine del mese?

— Precisamente. Figurati io era di ramazza e scopavo le scale della maggiorità; ad un tratto dal corridoio piccolo, che è a destra del Comando, parte un colpo di fucile. Cosa è? Cosa non è? In un momento il corridoio è pieno di gente; scritturali, piantoni, furieri, persino l’Aiutante maggiore in prima, si precipitano nel corridoio; non c’era nulla; soltanto mentre tutte le altre porte erano spalancate, quella di Giacometti era chiusa per di dentro. Il colpo era partito di là. Violini, il furiere maggiore del 3º battaglione, si precipita sulla porta chiamando angosciosamente:

— Giacometti!... Giacometti!... Giulio!...

Ma la porta era chiusa a chiave e Giacometti non rispondeva; soltanto mettendo l’orecchio al buco della serratura si sentiva un rantolare confuso, un balbettìo inintelligibile, poi più nulla.

L’aiutante maggioro mi disse:

— Andate a chiamare l’armaiuolo. — Piantai la scopa in un angolo e feci gli scalini a quattro per volta: in cortile trovai l’ufficiale di picchetto sbalordito che non sapeva dove andare, impressionato di quel colpo di cui ignorava la causa.

— È sopra.... alla Maggiorità — gli dissi — il furier maggiore si è sparato.

E scappai dall’armaiuolo.

Quando tornammo su, non si aveva più bisogno di lui; [91] la porta era stata aperta non so come, e la camera del povero Giacometti era piena di gente. Lui giaceva sul letto pallidissimo, coi grandi occhi celesti spalancati che pareva guardassero verso la porta; gli avevano levata la giubba di tela e il corpetto di lana; sul petto bianchissimo, in vicinanza del cuore, un buco nero, largo così e qualche gocciola di sangue nerastro; io lo vidi appena un momento e scappai subito; mi fece un’impressione così forte che non potei più parlare.

Sulle scale, mentre riprendevo la scopa, vidi il capitano medico che saliva affannosamente trascinando la sua pancia enorme.

— Dov’è? — mi disse.

— È là — e gli insegnai la strada.

Naturalmente il dottore arrivò tardi, il povero Giacometti era proprio morto; il cuore e il polso non battevano più; vicino al letto, in un angolo, c’era il fucile di cui si era servito, il fucile di Rodelli, l’appuntato del colonnello; lo aveva caricato, se l’era puntato al cuore, e aveva tirato il grilletto col pollice del piede destro, appositamente scalzato.

— Ma.... e il motivo? — domandai io vivamente impressionato.

— Hum!... chi ne sa niente?!... Naturalmente, dopo entrato il medico, mi hanno chiuso bravamente la porta sul muso e buona notte ai suonatori. Questo però ti dico: che questa notte bisognerà montargli la guardia. Hai paura tu?

— Paura? — E lo guardai negli occhi ferocemente: quello sguardo voleva dire: son volontario e tanto basta!

Catapane riprese, caricando tranquillamente la pipa:

— Tant’è preferirei vegliare un vivo e magari due; alle volte.... non si sa mai.... se ne raccontano tante!....

[92]

***

Appena montai la guardia fui messo di sentinella alla porta del quartiere; quelle due ore arono in un momento; erano le migliori del resto. I soldati uscivano a frotte, ando davanti all’ufficiale di picchetto che li guardava da capo a piedi col suo sorriso maliziosamente bonario; uscivano i coscritti, con i grandi berretti calati sulle orecchie, infagottati nel cappotto enorme, nei pantaloni lunghissimi, ricadenti in brutte pieghe sulle uose di tela crude. Tramezzo a loro, per deludere la vigilanza dell’ufficiale, gli anziani col kepy sulle ventiquattro e le scarpe a punta, sporgenti dalla larga campana dei pantaloni arrangiati, sgattaiolavano lesti lesti, facendo dei saluti straordinarii che tradivano la grande paura di essere rimandati indietro.

Una volta sulla strada respiravano tutti a pieni polmoni come liberati da un incubo e inchinavano di più il kepy allungando il o, colla sinistra fieramente posata sulla impugnatura della sciabola. Al aggio le comari sulle porte delle botteghe sorridevano; tutta quella gioventù era come un’ondata di vita che si riversava nelle strade del paese, nelle osterie, nei caffè, nelle piazze, spandendo dovunque un giocondo rumore di risa, un fremito allegro di giovinezza. Dalla piazza del mercato la fiumana si rompeva in cento rigagnoli; si divideva in cento piccoli gruppi; i coscritti però si fermavano sempre dinnanzi ai baracconi dei saltimbanchi e rimanevano lì per delle ore a bocca spalancata dinanzi ai cartelloni, coll’aria stupefatta e mansueta di bestie buone: di tratto in tratto qualcuno avventurava due soldi ed entrava dentro.

Io li vedevo uscire col berretto indietro e l’aria trionfante, e vedevo sul balcone a sinistra i due eleganti profili [93] delle signorine Galli, le figlie del tenente colonnello che mi perseguitavano nei sogni, quantunque in realtà non sapessero nemmeno che esistessi. Appoggiato al fucile, colla sciabola-baionetta innestata che luccicava al bel sole morente, non avrei dato la mia garetta per tutto l’oro del mondo. Sentivo di essere qualche cosa, come se la fiducia di tutto l’Esercito riposasse sopra di me, come se la responsabilità di tutto il quartiere gravasse sulle mie spalle.

Quelle due ore arono in un lampo; poi mi dettero il cambio e mi misero in rango per la ritirata. Dopo la disunione, mentre mi riscaldavo intorno alla stufa, Processi entrò nel corpo di guardia bestemmiando, mise il fucile sulla rastrelliera e si venne a cacciare in mezzo a noi, ancora pallido, borbottando:

— Io la guardia al morto non la monto più!...

— Toh! e perchè? — gli dissi io....

Ma Processi si rinchiuse in un mutismo feroce; era ancora livido e aveva lo sguardo spaventato.... e gli altri gli davano la baia con una preoccupazione segreta, cercando di indovinare ciò che aveva veduto.

A mezzanotte toccò a me; salimmo col caporale le scale quasi buie della Maggiorità coll’armi al braccio e infilammo il corridoio; la stanza di Giacometti era aperta e gettava sulla parete di fronte un rettangolo di luce di un rosso smorto: un altro lumicino ardeva sulla parete del Comando, allungando smisuratamente le ombre: regnava un silenzio di tomba. Il caporale mi piantò sull’attenti vicino a Pieroni che smontava e mi ripetè la consegna; poi se ne andarono tutti e due mentre un’eco sonora e lugubre accompagnava i loro i.

Io rimasi solo.

Quello che provai non lo so descrivere. Sulle prime mi appoggiai al muro e non ebbi il coraggio di guardare nella camera: il rettangolo di luce rossiccia era interrotto da un’ombra confusa, il cui contorno non si capiva bene; [94] ma ogni tanto nel tremolare della fiammella, delle ombre nuove si allungavano minacciosamente, si confondevano alla mia come se la volessero abbracciare.

Pure, malgrado il malessere, una curiosità intensa mi tentava; cominciai a voltare la testa timidamente, a fissare i cavalletti del letto, l’angolo illuminato della camera.

A poco a poco il coraggio mi tornava, la curiosità incalzava. Come un senso grande di pietà mi prendeva per quel bel giovane morto, per quel vinto dell’esistenza che giaceva lì vicino a me, mentre il giorno avanti era pieno di vita, pieno di vigore. E lo guardai.

Aveva ancora il petto scoperto, ed un buco rotondo vicino al cuore, che faceva spiccare la candidezza immacolata della pelle; ma i grandi occhi celesti erano chiusi per sempre e il capo biondo si sprofondava sul guanciale colla pesantezza inanimata del sonno eterno. Povero giovane!... Povero giovane!...

Avevo già mosso un o nella stanza; la morte ha un terribile fascino; io mi sentivo invincibilmente attirato verso il letto; non mi pareva possibile che fosse morto; forse dormiva. Certi rapidi aggi d’ombre davano di tanto in tanto al suo viso pallido un’espressione di vita che mi faceva impallidire; pure mi avanzai ancora, furtivamente, come un ladro, spinto dalla curiosità morbosa del fanciullo che vuol tutto vedere, che vuol tutto sapere.

Smoccolai la lucerna che faceva il fungo e subitamente una luce più chiara illuminò il pallore marmoreo di quel volto dalle linee pure. Pensavo alla sua povera mamma, alle sue povere sorelle; nella parete di destra, in una cornice di legno dorato, c’era una fotografia grande, un gruppo di famiglia dove campeggiava la sua figura. Povero giovane, povero giovane!...

Perchè si era dunque ucciso?... Io vedeva la disperazione grande di quella povera vecchietta, che somigliava [95] tanto a mia madre, e un singhiozzo mi montava alla gola dolorosamente: mi pareva che tutti quei ritratti mi guardassero, mi parlassero sommessamente con delle lagrime negli occhi, con delle lagrime nella voce. Era come un coro di voci lontane terminante in una domanda triste:

— Perchè? perchè?...

Non un indizio, non una traccia. Giacometti era un bravo giovane, regolato nei suoi affari, stimato ed amato da tutti; nella cameretta modesta regnava un’aura di pace, un ordine di giovanotto beneducato, dalle abitudini tranquille. Il segreto era là, in quella testa marmorea, dal profilo di cammeo antico, in quelle labbra scolorite atteggiate ad un triste sorriso. Nell’anulare della mano sinistra gli luccicava un piccolo cerchietto d’oro; un ricordo di sua madre forse.... Allora si era ucciso per amore, uno di quelli amori giganti, impossibili, che spezzano un’esistenza. Qual’era la Dea?... Non un ritratto di donna appeso al muro, non una lettera nello scrittoio. Io mi perdeva in congetture e fissavo intensamonte il povero Giulio interrogandolo collo sguardo. Però ad un tratto vidi qualche cosa di oscuro che spiccava fra il bianco del capezzale e il bianco del lenzuolo; una sottile striscia nera filettata d’oro. Guardai meglio; era un ritratto di grande formato, uscente di sotto il guanciale.

L’enimma era lì.

Io non seppi vincere la curiosità; quel segreto non mi apparteneva; il povero morto avrebbe voluto portarlo seco, seppellirlo nella tomba: ma anche il pensiero mi venne che all’indomani quella fotografia sarebbe caduta in mano di tutti, e pensai di far bene a sottrarla agli sguardi curiosi degli indifferenti. La presi e la guardai...; il sangue mi diede un tuffo, il cuore ebbe un balzo violento e il ritratto fu lì per cadermi di mano. Era lei, la bellissima Maria Galli; la figlia del tenente colonnello colla sua testina greca, col suo sorriso divino....

[96]

Dei i si avvicinarono alle scale; mi misi in tasca il ritratto e baciai il morto sulla fronte pallida.

— Va povero Giulio; hai amato come un poeta, e nessuno ti seppe comprendere!... Mi parve che dalle sue labbra uscisse un soffio, che il morto mi mormorasse all’orecchio con un fil di voce:

— Grazie fratello!

[97]

FISIOLOGIA DELL’ATTENDENTE (CONFERENZA). 686h6h

Avete mai pensato, o signori, allo straordinario sviluppo che avrebbe la letteratura militare amena, se tutti gli attendenti fossero al caso di scrivere abbastanza correntemente le memorie dei loro due anni e mezzo di servizio?... Avete mai pensato, lettori amatissimi, che ricchezza di materiale novellistico e romantico salterebbe fuori a risanguare il romanzo e la novella italiana morenti d’anemia tra i robbivecchi del ato e i robbivecchi del presente?

Dio de’ Dei! io fremo al pensare a tutte le scenette umoristiche, serie, semiserie, drammatiche, melodrammatiche e anche tragiche che salterebbero fuori da tutte quelle memorie autobiografiche. Le segrete debolezze del sesso forte (tanto più forte poi perchè è armato), le ignorate energie del sesso debole, tutto ciò che non si osa dire nè scrivere in pubblico, anche nei romanzi più veristi, apparirebbe alla luce del sole, svelato da questi fedeli e discreti rappresentanti della servitù militare. Altro [98] che le Militaresse della signora Giannini!... Altro che le Miserie de Monsù Travet!... Altro che i Nostri intimi!...

Da tutto questo materiale organico di documenti umani, un attendente di genio, uno Zola in cappotto e kepy, tirerebbe fuori, ne son certo, un altro ciclo di romanzi scientifico-sociali, appetto ai quali quelli dello Zola autentico potrebbero andarsi a nascondere.

A proposito; una cosa che mi stupisce: Zola che ha ormai toccato tutti i soggetti che possono dar materia di romanzi, Zola che ha studiato tutti gli ambienti, vivendoci dentro, constatando de visu, raccogliendo sul luogo i documenti umani, non ha ancora pensato di riprodurre l’ambiente della caserma. Quando ci si volesse decidere e desiderasse di provare, gli offro io un posto di attendente a rischio di essere tramandato ai posteri nella poco piacevole compagnia di Lantier, di Coupeau o di Jésus Christ.

Ma riprendo il filo dell’argomentazione.

Gli attendenti, ecco i novellieri, i romanzieri, gli artisti dell’avvenire!... Ecco perchè io grido ai legislatori con tutta la forza dei miei polmoni: Istruite gli attendenti, o signori! Insegnate loro a leggere e a scrivere, avvegnachè essi sono i veri depositari dei migliori documenti umani, essi che hanno viste tante cose e che hanno saputo non vederne tante altre, essi che colla loro inconscia e rozza filosofia hanno immagazzinato tesori di osservazione sapiente; essi che hanno saputo accoppiare al nobile mestiere delle armi, quelli non meno nobili di lavapiatti, lustrascarpe, galoppino, bambinaio, ccc., essi che tornano nelle loro campagne la mente piena di utili cognizioni e che potranno insegnare ai loro compaesani ignoranti a che cosa serve la senapa nelle bistecche, le nova sbattute nel caffè prese al mattino, e il modo infallibile di liberarsi dei creditori!... Essi che....

Ma a questo punto mi coglie la saggia riflessione, che se gli attendenti fossero istruiti sarebbero subito presi [99] dalla malsana ambizione di essere caporali e sciuperebbero inutilmente il tempo sui tavoli della Maggiorità o su quelli di una fureria qualsivoglia.

Dunque, aspettando che uno di essi scriva la Fisiologia dell’Ufficiale, io mi provo a scrivere la Fisiologia dell’Attendente. Degnatemi, o signori, d’una benigna attenzione.

***

Che l’attendente sia un personaggio ormai consegnato alla storia, non c’è nemmeno da metterlo in dubbio. Anche l’arte si è impadronita di lui e lo ha fissato nelle sue pagine immortali. L’Ordinanza di De-Amicis, che gira per le mani di cinquecento e più mila lettori, e l’Ordinanza di Testoni che gira trionfalmente su tutti i palcoscenici d’Italia, informino. Non parlo delle farse, prima fra tutte La Consegna è di russare, in cui l’attendente è un personaggio di primaria importanza. Epperò, potrebbe reputarsi inconsulta vanità, quella di parlare dell’attendente, ordinanza, trabante o confidente che dir si voglia, dopo quanto ne ha scritto l’illustre De-Amicis che è il fondatore della letteratura militare amena in Italia. Se non che io mi propongo di fare in via più generale, quello che egli ha fatto per un attendente solo, io mi propongo uno studio sistematico e non già un bozzetto sentimentale! Chiedo dunque venia ai cortesi uditori ed incomincio.

Attendente viene da attendere; ordinanza viene da ordine; confidente viene da confidenza; trabante viene.... francamente io non so da che cosa venga; certo viene da.... soldato semplice.

Di questi quattro appellativi il primo è, a parere mio, il più giusto; se non esistesse bisognerebbe crearlo apposta. Difatti la più grande delle sue attribuzioni è quella di [100] attendere, di aspettare: io non ho mai conosciuto al mondo un uomo che aspetti di più dell’attendente: egli aspetta sempre; aspetta che il padrone si svegli, che la padrona si alzi, che i bambini mangino il caffè e latte prima di accompagnarli a scuola; aspetta il padrone un po’ dappertutto; al caffè per dargli la chiave di casa, in quartiere per dargli il berretto o per tenergli il cavallo; per la strada o sulla porta del teatro per dargli l’impermeabile se piove; egli è una specie di Padre Eterno, che deve trovarsi in cielo, in terra ed in ogni luogo.... Gli altri appellativi non mi sembrano del pari appropriati. Lasciando andare il trabante che è voce dialettale, originata da chi sa quale orribile barbarismo, le altre due ordinanza e confidente, offrono il fianco, anzi tutti e due i fianchi alla critica. Difatti ordinanza vuol dire uomo d’ordine; ora, domando io, come si fa a chiamare uomo d’ordine uno sciagurato che vi mette il formaggio grattato vicino al lucido delle scarpe, e le ciabatte sulle camicie stirate?

Dunque ordinanza no; confidente nemmeno; la parola ha un significato troppo assoluto; che egli conosca a perfezione gli affari, i gusti, le abitudini del proprio padrone, sta bene, ma che ne sia proprio il confidente.... eh via! mi pare un po’ troppo.... Come si fa per esempio a dirgli:

— Di’ Bastiano! ho un lontano sospetto che mia moglie.... col tenente tale.... mi faccia.... hai capito? Cosa ne dici?

Oppure:

— Testadura, mi è venuta un’idea....

— Quale signor capitano?

— Se mi giuocassi al nove i fondi di Compagnia?

Vi pare?

Dunque non ci sono più dubbi; la parola vera è attendente; e chiarito questo primo punto andiamo avanti.

Gli attendenti si dividono nello stesso numero di categorie degli ufficiali. Ci sono perciò gli attendenti-subalterni, gli attendenti-capitani, gli attendenti-superiori e gli attendenti-generali.

[101]

Questi ultimi essendo personaggi di così alta importanza, che sfuggono alla mia giurisdizione, limiterò il mio studio fino agli attendenti-superiori che sono appunto gli attendenti reggimentali.

Per chi non lo sapesse il reclutamento degli attendenti si fa in questa maniera:

Appena arrivati i coscritti al Reggimento, la Maggiorità fa lo spoglio delle professioni; la maggioranza è costituita dai contadini, che dopo tutto, sono sempre i migliori soldati; nella minoranza si trovano invece calzolai, sarti, fabbri-ferrai, falegnami, barbieri, panettieri, cuochi, sguatteri, musicanti, ecc. ecc.

Il colonnello, che è ammogliato ed ha appunto bisogno d’un cuoco, si rivolge all’aiutante maggiore in 1ª.

— Dica, capitano, non ci sarebbe, per caso, un cuoco per me?

— Sissignore; quest’anno ne abbiamo avuti cinque.

— Sta bene; mi tenga d’occhio il migliore che lo prenderò appena abbia ultimato l’istruzione delle reclute.

Vengono chiamati i cinque cuochi all’ufficio Maggiorità al redde rationem.

— Voi dove facevate il cuoco?

— A Roma, al Caffè del Parlamento.

— Ah! ma.... eravate proprio cuoco o sguattero?

— Cuoco, signor capitano — risponde l’altro con un tono di dignità offesa....

— Benone; fate allora un o a destra. Voi?

— Cuoco, signor capitano.

— Dove? in che paese? in che albergo?

— A Frosinone, all’osteria dei Tre Re.

— Ho capito; un o a destra. E voi?

— Io, signure capitane facive lu coche a Potenze.

— Basta, non ne parliamo più; un o a destra. E voi?

Er coco! — risponde con una faccia granitica l’interrogato.

— Che cosa sapete fare?

[102]

So’ fa’ n po’ de’ tutto; le frittelle e li bignè pe’ S. Giuseppe, li polli a la cacciatora, li carciofoli alla giudia.

— Bravo, per Dio! un o a destra.

Rimane l’ultimo; un povero diavolo stremenzito, affogato nel cappotto, sepolto nel berretto, con una vocina da donna.

— Di che paese siete?

Mi sun de Milaan....

— Sapete fare il risotto?

Di sotto l’enorme visiera del berretto si indovina un sorriso.

Alter chè!...

— E le costolette?

Alter chè!...

— Dove servivate?

Mi s’eri al Cova....

— Bene, voi e quello lì (indicando il primo di destra) verrete quest’oggi a casa mia a fare un esperimento delle vostre abilità culinarie; voi mi farete il risotto; (l’uomo della visiera sorride) e voi?

Il cuoco del Caffè del Parlamento si avanza con un’aria di maggiordomo e dice pacatamente:

— Bisognerà vedere che cosa ci sarà di disponibile in cucina.

L’aiutante maggiore rimane soggiogato da tanto buon senso.

— Sicuro, non ci avevo pensato. Allora vi dò carta bianca; andate in mercato, comperate, cucinate e poi mi darete la nota. Avete capito?

— Sissignore.

I cinque cuochi sono congedati.

Alla sera verso le sette, l’aiutante maggiore torna a casa, seccatissimo di avere dovuto lavorare tutto il giorno come un’anima dannata per il progetto di mobilitazione, dimentico dei cuochi, del risotto, del Caffè del Parlamento, preoccupato del suo cavallo Martino, che ha preso il ticchio. [103] Appena entrato trova la cucina piena di gente, di soldati in grembiale; un calore ardente lo assale alla faccia, un potente profumo di tartufi gli monta alle nari.

— Cosa diavolo c’è?

D’improvviso gli tornano in mente gli ordini dati così alla leggiera al cuoco del Caffè del Parlamento.

— Sono rovinato! — esclama, mettendosi le mani nei capelli. Tuttavia va avanti, entra in camera sua, butta il berretto e la mantellina sul letto. Un gran chiarore esce dalla stanza aperta del salottino.

— Diamine! che ci sia gente? Martino! Martino!

Si presenta il cuoco del Caffè del Parlamento, colla giubba abbagliante di bianchezza, il grembiale più bianco della giubba, il berretto di tela più bianco del grembiale.

— Il signore è servito!...

E accenna colla mano la porta del salotto....

Il capitano si a una mano sugli occhi credendo di sognare; entra nel salotto sfarzosamente illuminato da quattro doppieri e vede una tavola sontuosamente preparata come per la cena d’un principe del sangue; un mazzo di fiori è nel mezzo; dai lati trionfi di frutta, pere enormi, uva, pesche di una grossezza inverosimile, ananassi, datteri, fragole....

— Oh! povero me! — esclama il povero capitano, che tra le altre qualità ha anche quella invidiabile dell’economia....

E si lascia cadere di peso sulla poltrona. Il cuoco è sparito.

Dinanzi a lui, appoggiato a una bottiglia pompeggia a caratteri d’oro il menù; l’infelice capitano vi getta sopra lo sguardo e non può trattenere un grido di spavento:

— Sono assassinato! — urla.

E legge: Potage à la Reine — Risotto alla Milanese — Filet de Boef à la Financière — Artichauts Suisses à la Bernoise — Saumon à la majonnaise — Perdrix aux Truffes — Pâtè d’oie de Strasbourg — Salade-Russe Punch à la Romaine. — Dessert.

[104]

VINI. Moscato di Canelli — Pomino vecchio — Chateau-Laffitte del 1830 — Vieux-Perigordin — Champagne Veuve Cliquot 1845 — Cafè — Cognac — Chartreuse.

Il malcapitato è di un balzo in cucina col menù alla mano:

— Chi è quell’assassino — grida. — Chi è quell’assassino che ha confezionato un menù di questa sorte? Martino, dov’è Martino? (Martino era il suo attendente). Come mai, pezzo d’asino, lasci che questo somaro venga in casa mia a far dei pranzi di questo genere?

— Ma.... signor capitano.... mi hanno detto che è ordine suo....

— Ma signor capitano, lei aveva ordinato....

Scior capitani, l’aveva minga ordinàa?... — rispondono tutti in una volta i tre armigeri meravigliati....

— Ordinato, ordinato un accidente! bestie antidiluviane che non siete altro!... Ma poi capisce che in fin dei conti il torto è tutto suo e torna nel salottino dinanzi alla tavola scintillante....

Dopo pranzo il capitano chiama i cuochi, al gran rapporto.

— Chi ha fatto tutta questa roba?

— Io — risponde facendo un o avanti il Caffè del Parlamento.

L’era bon el risott? — dice una vocina in falsetto uscente da un cappotto.

— Quanto avete speso?

L’uomo del menù presenta freddamente la nota: Settantasette lire e cinquanta centesimi.

— Sta bene: voi sarete attendente del colonnello; ma mi raccomando veh! bisogna dargli da mangiare meglio a lui!...

— Non dubiti signor capitano.

E i due cuochi sono licenziati.

Il capitano pensa che l’esperimento gli costa un po’ caro, ma si frega malignamente le mani....

[105]

***

Il capitano a in rivista le sue reclute guardandole bene in faccia; al primo viso su cui baleni un barlume d’intelligenza si ferma.

— Come vi chiamate?

— Mangì.

— Come?

— Mangì....

Il tenente suggerisce: Mancini.

— Mancino o Mancini?

— Mangì.... — risponde imperturbabilmente il soldato, incrollabile nella sua pronunzia meridionale.

— Ho capito. Sapete leggere e scrivere?

— Nossignore.

Il capitano si allontana disilluso. E dire che quella gli pareva una faccia intelligente!

La rivista continua; finalmente ha trovato una faccia che gli va a genio.

— Come vi chiamate?

— Chiodini.

— Che cosa facevate a casa?

— Combattevo colli bovi....

— Eh?

Il tenente gli va in soccorso spiegando che in dialetto vuol dire: guardian di buoi.

— Ah! e sapreste combattere con i cavalli?

— Sissignore.

— Sapete leggere e scrivere?

— So fà la firma....

— Basta, ne sai anche troppo, valoroso guerriero. Sarai mio attendente.

Un lampo di gioia balena negli occhi del toreador.

[106]

***

Finalmente è la volta di scegliere dei signori subalterni. Essi si rivolgono al furiere:

— Dica, furiere; se ci fosse per caso un soldato pulito che potesse fare da attendente....

— Ci sarebbe Porcu.

— Niente, il nome è di cattivo augurio....

— Allora, Pizzagrillo.

— Di che Distretto?

— Orvieto.

— Me lo faccia chiamare.

Compare Pizzagrillo, un ragazzotto svelto, tarchiato, con due occhi intelligenti....

— Ti chiami Pizzagrillo?

— Sissignore.

— Vuoi fare l’attendente?

— Magari!... — risponde Pizzagrillo con un sorriso di beatitudine....

— Cosa sai fare?

— Niente!

— Bravo! Sei quello che ci vuole. Vieni a casa mia stassera.

***

Gli attendenti cappelloni fanno il noviziato sotto l’alta direzione di quelli anziani, ed ascoltano i loro insegnamenti a bocca aperta.

Un giorno Sassara si rimorchia Paglialunga per le vie di Torino, affine di dargli le istruzioni necessarie.

[107]

In via Po numero tale, si ferma:

— Vedi? qui al terzo piano ci sta l’amorosa del tenente, ti ci manderà spesso a portare dei biglietti, dei mazzi di fiori.... Ricordati l’indirizzo.

Non dubbità.

In via S. Massimo, Sassara si ferma un’altra volta.

— Vedi, lì, al primo piano, ci sta un’altra amorosa del Tenente. È bionda, ricordati!

— Va bene.

In piazza S. Carlo Sassara si ferma per la terza volta.

— Guarda bene. Vedi quella finestrina al quarto piano? Bè, c’è un altra amorosa del tenente.... È bruna.

— Cristo! Ma quante ce n’ha il tenente?

— Io non conosco che queste tre, ma è certo che devono essere di più....

— Salute.... e figli maschi!...

E proseguono la strada.

***

L’apprentissage dura un paio di mesi: quando l’attendente anziano va in congedo, il cappellone è già istruito.

Il giorno del congedamento accade una scena commovente.

L’attendente anziano ha già fatto la sua valigia e inalberato trionfalmente il berretto fuori d’ordinanza. Egli vi gira intorno tutto il santo giorno e vorrebbe dirvi tante cose che non sa di dove cominciare. Voi però lo capite benissimo, ma viceversa siete un po’ commosso e preferite tacere. Mentre siete al tavolino, occupatissimo a scrivere, ma pensando che vi dispiace immensamente di separarvi da quel buon diavolo che vi vuol bene ed al quale volete bene, egli si presenta, salutando.

— Dunque, signor tenente io vado....

[108]

E gli trema la voce.

Voi vi alzate in piedi commosso, gli stringete la mano rozza che vi ha fatto il letto, lustrato le scarpe, levato gli stivali per due anni e mezzo.

— Dunque addio; e ricordati del tuo tenente che ti voleva bene, benchè si arrabbiasse qualche volta, e della tua compagnia, dove ti sei fatto amare da tutti....

— Scusa, signor tenente, se ti ho fatto qualche mancanza.... — interrompe il povero diavolo colle lacrime agli occhi trattenute a stento....

— Niente; ma che mancanze! sei stato sempre un buon soldato: ora va, stai allegro e scrivimi....

— Sissignore!

— Ciao.

— Arrivederlo!

L’attendente va adagio; voi vi sentite un groppo alla gola. Appena uscito dalla porta lo richiamate.

— Sassara!

— Comandi!

— Hai dato tutte le istruzioni necessarie a Paglialunga?

— Sissignore, gli ho fatto vedere tutto....

— Bene! allora addio.

E gli date un bel bacione, anzi due bei bacioni sonori sulle guancie, due baci che vi sollevano il cuore da quel peso d’amarezza che ve lo schiacciava....

Il cappellone vi guarda fare, commosso, a bocca aperta.

***

Appena partito l’anziano, il cappellone tira un respiro lunghissimo di soddisfazione pensando che adesso egli si trova in casa sua; ria subito l’inventario della roba nostra (così almeno la chiama lui) e alla più piccola mancanza fa il suo bravo rapporto con aria trionfale.

[109]

— Tenente, mancano cinque colletti.

— Non importa, li ho regalati io a Sassara....

— Mancano pure due paia di polsini....

— Va bene, ho regalati anche quelli....

Andate in quartiere alla istruzione interna, poi al caffè a fare una partita a carambola.... alle quattro e mezzo ritornate a casa. Dio che spettacolo! Tutta la stanza è in aria; vicino alla stufa da una cordicella tesa, pendono duri, stecchiti, scheletriti, otto paia di guanti glacès, che il miserabile ha lavato coll’acqua e sapone; tutti i mobili sono coperti dai vostri indumenti, la mantellina, il cappotto, l’impermeabile distesi ad asciugare, tutte le casse sono vuote e la roba un po’ dappertutto sulle sedie, sul letto, per terra, vittima della verifica spietata della consegna; la batteria di cucina allineata in bell’ordine lungo il muro....

Il manigoldo ritorna coll’aria trionfante di chi è preparato a ricevere un elogio. Egli ha lavorato tutto il giorno, l’infelice!

Allora comincia l’istruzione.

— Ma no, caro mio, i guanti glacés si lavano colla benzina....

***

Il giorno susseguente alla partenza dell’anziano, è un giorno nefasto per voi. Quel giorno, non c’è santi che tengano, voi andate agli arresti.

Gli avete detto di svegliarvi alle cinque del mattino. Alle quattro e tre quarti l’armigero fedele entra in punta dei piedi, piglia gli stivali e incomincia a lustrare. Alle cinque vi sveglia.

— Sor tenente....

— Hum!... — fate voi pieno di sonno.

[110]

— Sono le cinque.

— Va bene! — e naturalmente vi riaddormentate.

Dopo un certo tempo vi destate spaventato, di soprassalto.

— Paglialunga?

— Comandi!

— Che ora è?

— Sono le otto.

— Le otto!... E cosa fai tu lì?

— Aspettavo che lei si alzasse...

***

Il giorno dopo:

— Sor tenente sono le cinque.

— Va bene apri la finestra.

Il giannizzero eseguisce.

— Ma se è buio!

— È buio, ma sono le cinque....

Memore della lezione del giorno prima, vi buttate giù dal letto, vi vestite in fretta, correte in quartiere, la porta è chiusa.

— Che diamine? Che sia accaduta qualche disgrazia?

Bussate, entrate, guardate l’orologio.

— Maledetto cretino! Manca un quarto alle quattro!...

E andate a schiacciare un altro sonnellino nella stanza dell’ufficiale di Picchetto.

***

Dopo queste ed altre inevitabili traversie l’attendente si fa, comincia a capirvi, a indovinare i vostri gusti, le vostre idee, a conoscere le vostre abitudini, qualche volta si permette di darvi amorevolmente qualche consiglio.

Una volta, alla Scuola di Parma, vedendo che io mi [111] occupavo troppo di chitarre e delle vicine di casa, l’attendente mi disse serio serio.

— Tenente suona, suona.... ma poi ti boccieranno all’esame....

Io gli diedi del somaro, ma all’esame i professori lo diedero a me del somaro. E mi bocciarono di santa ragione.

Dico una cosa che può parere strana, ma che non è meno vera. L’attendente dopo un po’ di tempo finisce per rassomigliare al padrone; egli ne acquista le mosse, i gesti, l’andatura, la voce i vizii e le virtù.

Talis padronis.... — direbbe un amico mio che sa il latino — talis attendentibus.... Se il padrone è ambizioso, l’attendente porta i polsini e i pantaloni arrangiati, se il padrone è amico di Bacco egli ne diventa addirittura il fratello e si ubbriaca regolarmente tutte le domeniche e le altre feste comandate; se il padrone ama le belle signore, l’attendente, per l’onore del grado, ama le rispettive cameriere.

Tra l’infinita varietà di attendenti ci sono anche quelli che vi fanno la réclame nel vicinato ed in tutti i negozi della città; la réclame però è quasi sempre favorevole. Si stupisce di essere così conosciuti quando lo si desidera così poco.... Un mio antico soldato, un siciliano, si serviva della réclame per farsi dar da bere. Una volta lo mandai da una signora con un mazzo di fiori per il suo onomastico. Riferisco il dialogo testualmente.

— Mi manda il tenente con questo mazzo e tanti augurii.

— Grazie tante.

— Cosa gli devo dire?

— Ditegli che è stato tanto buono a ricordarsi di me....

— Oh! per buono è buono davvero!

— Sì? vi tratta bene?...

L’assassino comincia a sfoderare la litania delle lodi. La signora lo ascolta contenta e gli fa portare da bere, un bicchiere, due bicchieri, tre bicchieri. Quel birbante non la finiva mai; a momenti le vuotava la cantina....

[112]

***

Bastano due mesi di soggiorno al Reggimento per conoscere tutti gli attendenti; quelli del colonnello si conoscono dalla faccia, quelli dei maggiori dai pantaloni a campana e dal berretto coi pizzi in dentro, quelli dei capitani dai capelli lunghi, quelli dei subalterni dal cinturino nero, perchè non hanno mai il tempo di dargli il bianco. Gli attendenti degli ufficiali superiori e anche quelli dei capitani sono vere autorità, non solo per i loro compagni, ma anche per tutti gli ufficiali.

Possono fare quello che vogliono, nessuno osa toccarli, circa alla tenuta hanno sempre la scusa della scuderia. Quelli dei subalterni.... è un altro paio di maniche....

Comunque sia però, bello o brutto, cretino o intelligente, tutti gli ufficiali amano il loro soldato e ne sono gelosi; guai a chi li tocca! E hanno ragione; l’attendente, meno casi straordinarii, dovrebbe essere dichiarato inviolabile, inquantochè esso rappresenta ancora la razza antica e nobile dei servitori fedeli, devoti sino alla morte, che all’infuori dell’esercito, non esistono più che nei vecchi romanzi e nelle vecchie commedie. L’attendente è l’altra metà dell’ufficiale, la metà più umile, più modesta, quella che non si vede, è la sua Provvidenza, la sua suora di carità, il suo souffre-douleurs, il suo angelo custode. E ci sono dei sottotenentini appena promossi che nel primo divampare del loro fuoco sacro li mettono in prigione.... (quelli degli altri però!) Infelici!...

Io chiuderò questa lunga conferenza facendo a me ed a loro questo augurio sincero:

— Possa ognuno di noi trovare nella vita una moglie che possegga le qualità morali del proprio attendente!...

[113]

COMPAGNI DI SVENTURA 302my

Quando Beppino Lo-Cicero si affacciò per l’ultima volta sulla porta della cantina, Marietta gli si fece incontro sorridendo, colle mani pienotte sul grembiale di bucato e gli disse:

— È pronto!...

Beppino Lo-Cicero partì come un razzo; sulle scale incontrò Mariani, il caporal maggiore della 5.ª

— Dove vai?

Mariani scosse le spalle; dove voleva che andasse? Era consegnato e il Natale doveva arselo in quartiere mentre gli amici se la divertivano fuori, dalla bionda dell’Aquila d’Oro.

— Allora vieni con me — fece Lo-Cicero guardando con compiacenza i suoi galloni nuovi di caporal maggiore, — devo farti una improvvisata.

Mariani lo seguì. Percorsero così cinque o sei camerate sepolte nella semi-oscurità del crepuscolo, ingombre di tavole e di panche sulle quali i soldati avevano fino allora festeggiato il Natale.

[114]

Finito il giro Peppino contò le sue reclute; nessuna mancava e tutti lo guardavano con un’aria meravigliata quasi per domandargli: Che cosa c’è di nuovo? Dove ci conduci?

Lo-Cicero che pregustava il trionfo rispose semplicemente:

— Venite con me.

E si avviarono alla cantina.

***

Nell’ampio camerone d’entrata, c’era una confusione indescrivibile; un fumo denso di tabacco acre e cattivo misto ad un potente odore di cavoli, ammorbava l’atmosfera. Dietro il banco, lunghissimo e difeso da un reticolato di fil di ferro, Teresa, la bella moglie del cantiniere, imperava come una regina, colle maniche rimboccate fino al gomito, che lasciavano scoperte due braccia stupendamente modellate; la lanterna a petrolio che pendeva dal soffitto annerita dal tempo e dalla fuliggine, gettava sul suo viso, sulle sue braccia, dei lampi rossigni e delle ombre opache, come in certi quadri di scuola fiamminga. Imperava, è la vera parola; poichè al suo terribile occhio nero, continuamente in moto, nulla sfuggiva; pur non cessando di servire al banco ella teneva d’occhio il vecchio cuoco intento alle sue casseruole, Gianni il guercio che serviva i soldati e la vispa Marietta che si aggirava qua e là, imperturbabile contro le paroline dolci e i pizzicotti che le piovevano sulle anche robuste.

Il marito di Teresa stava al banco contando avidamente i denari nel cassetto e seguiva i movimenti della moglie con gli occhietti grigi dove la malizia lottava coll’istupimento alcoolico.

Ma Teresa fremeva; essa aveva veduto col suo occhio [115] di lince il sergente Sironi piegarsi all’orecchio di Marietta e sussurrarle una parola nel collo; aveva veduto Marietta sorridere e piegare la testolina intelligente in segno di assentimento.

Decisamente quei due se la intendevano da un pezzo e un singhiozzo di rabbia l’afferrava alla gola mentre la destra affettava rabbiosamente un salame; quei due se la intendevano; finalmente l’aveva veduto coi proprii occhi l’aristocratico Sironi, l’incorreggibile fumatore di sigarette, il sentimentale marchesino a far la corte ad una serva. Lo aveva veduto, anzi lo vedeva ancora laggiù in fondo al camerone, traverso alla folla dei coscritti; ma in quel momento non poteva far nulla; non poteva dir nulla; le conveniva aspettare e tacere. La sua vendetta sarebbe venuta più tardi, sarebbe venuta!...

***

Ad un tratto Marietta si staccò dal sergente Sironi e mosse incontro a Lo-Cicero che si presentava trionfalmente in cantina seguito dai suoi cinque compagni.

— Per di qua, signori, per di qua!...

E li precedette voltando a sinistra per un corridoio oscuro che menava ad una camera appartata. Lo-Cicero, per non far torto al suo carattere intraprendente, si affrettò a cingerle con un braccio la vita ed a stamparle un silenzioso bacio sulla nuca.

Ma Marietta gli era sgusciata di mano come un’anguilla, col suo riso squillante e provocante di biricchina maliziosa ed esperta. Gli altri seguivano Lo-Cicero ancora meravigliati ma sorridenti nell’aspettativa di qualche cosa di piacevole. Marietta aprì la porta della stanza dove cinque candele ardevano sulla tavola sontuosamente apparecchiata.

[116]

Fu un «oh!» di stupore ed i cinque convitati guardarono dubitosamente Lo-Cicero per domandargli se veramente quel lusso sibaritico fosse proprio per loro.

Lo-Cicero disse con un mal simulato sorriso di vanità soddisfatta:

— Amici miei, non ci è nulla da meravigliarsi; vi ho invitato a festeggiare meco due cose; il Natale e la mia promozione a caporal maggiore. Non vorrete voi bere una bottiglia alla mia salute?

Cinque destre gli si offersero simultaneamente riconoscenti, un sorriso di soddisfazione illuminò il volto di tutti. Caporal Stoppini, il più burlone della compagnia gli disse a mezza voce:

— Ma, dimmi la verità hai svaligiato qualcheduno?

— A tavola, a tavola! — disse Marietta dileguandosi rapidamente nell’oscurità del corridoio.

Lo-Cicero fu messo a capo tavola per voto unanime: gli altri si accomodarono alla rinfusa, senza distinzione di grado, affratellati tutti dalla vista della tavola piena di ogni grazia di Dio.

— A tavola siamo tutti uguali — diceva Mariani offrendo la sedia a Lorenzetti il volontario della 2.ª E Lorenzetti si accomodò, ringraziandolo collo sguardo; ma era vivamente contrariato; gli sedeva di fronte l’antipatica figura del caporal maggiore Girelli, il suo incubo, quello che gli aveva ritardato, di tre mesi almeno, la promozione a caporale. Alla destra di Lo-Cicero, Di Gennaro, il caporale di contabilità si baloccava intorno ad una scatola di sardine che non riusciva ad aprire; Stoppini sedeva in faccia all’anfitrione, col berretto sulle ventiquattro e il musetto appuntato di faina in agguato.

L’antipasto sparì in un batter d’occhio fra gli applausi dei convitati. Decisamente Lo-Cicero faceva le cose alla grande, e non stava a lesinare sul centesimo. Peppino, rosso dalla gioia si schermiva debolmente.

— Oh! ma vi pare!... Bevete piuttosto!...

[117]

— Alla salute del nostro caporal maggiore! — fece Lorenzetti alzando il bicchiere.

Ma in quella Marietta comparve sulla soglia dell’uscio sorridente, con un gran piatto di maccheroni fumanti tra le mani.

— Alla baionetta! — urlò Stoppini brandendo la forchetta minacciosamente.

Fu un assalto in piena regola. Lo-Cicero volle servirsi l’ultimo anche per aver tempo di sciorinare la sua brava dichiarazione alla servotta dalle anche procaci. E mentre gli altri tuffavano il naso nel vapore pregno d’aromi esalante dai piatti ricolmi, egli riannodava una conversazione forse interotta fin dal giorno prima, coll’adorabile ma superba cameriera.

— Dunque non ne vuoi proprio sapere?

— Lo-Cicero voi scherzate.

— Te lo dico sul serio, pure lo sai che ti amo!

— Queste cose dovete dirle a quella scimmia dell’Aquila d’Oro, dovete dirle, non a me che vi conosco da un pezzo.

E così dicendo Marietta, colla scusa di ritirargli il piatto dinanzi, gli sfiorava i capelli colla mano pienotta.

Mariani però — benchè intento ad ingollare delle prodigiose forchette di maccheroni — stava colle orecchie tese e non aveva perduto una parola del dialogo.

Anche lui poteva vantare delle pretensioni all’amore della bionda Marietta, tanto è vero che una volta le aveva persin regalato un fazzoletto di seta a scacchi rossi e neri.

Dunque Lo-Cicero era evidentemente un intruso; dunque colla scusa della cena egli cercava di rubargli l’amorosa. Questo pensiero gli mandava per traverso i maccheroni ingollati colla sua insaziabile voracità.

— Ah! ah! era dunque una sfida quella? Ebbene si sarebbe veduto alla chiusa dei conti, si sarebbe veduto.

Allora il duello incominciò, sordo dapprima, poi a poco a poco più palese per disputarsi le grazie della bionda [118] tiranna: naturalmente tutti se ne accorsero e si formarono due partiti.

Anche Marietta se ne accorse e colla tattica prudente che adoperano le donne in simili casi, dispensava sguardi e sorrisi ai due combattenti con lodevole imparzialità.

Mariani però perdeva terreno: che cosa era mai un fazzoletto di seta di fronte all’anello d’oro che Lo-Cicero faceva scintillare dinanzi agli sguardi cupidi della robusta servotta?

Perdeva terreno e si sfogava a bere e a fare dello spirito agro-dolce che non riusciva a strappare l’ombra di un sorriso nemmeno ai commensali del suo partito. La cena volgeva al suo termine, si era alle frutta e Peppino, a cui premeva di concludere qualche cosa, aveva ordinato due bottiglie di Barbera.

— E due per conto mio — urlò Mariani, già mezzo in cimbalis.

Si impegnò una discussione vivace. Lo-Cicero protestava altamente: era o non era lui che aveva invitato?

Dunque le spese e gli onori della serata doveva farli lui.

Mariani non volle saperne; il diapason della discussione si innalzò rapidamente malgrado gli sforzi di Lorenzetti che cercava di condurla sopra un terreno più ragionevole.

In breve anzi essa cangiò natura: non si trattava più di sapere chi dei due doveva pagar le bottiglie, ma l’astio invidioso di Mariani aveva tratto in ballo alcuni vecchi rancori da lungo tempo sopiti. E come il vino e l’amore lavoravano non poco in quei cervelli esaltati, non ci volle molto a are dalle ingiurie alle minaccie e da queste alle vie di fatto.

In un batter d’occhio la tavola fu sparecchiata; piatti, bottiglie, bicchieri, volarono per l’aria e si ruppero sui muri con un fracasso assordante; all’improvviso la camera fu piena di gente, e i litiganti separati da un’ondata di soldati, sentirono la voce nasale del furiere portalettere che dava l’attenti e quella ben nota del tenente Rinaldi che diceva pacatamente al sergente di ispezione:

[119]

— Mi metta bravamente in prigione questi due belligeranti e mi faccia sgombrar la cantina....

***

Nella prigione di rigore Lo-Cicero e Mariani rimasero soli con un freddo che tagliava le orecchie senza nemmeno potersi vedere in quel buio fitto. Ad un tratto trasalirono; avevano udito nel corridoio il bisbigliare sommesso di due persone. Mariani corse a metter l’orecchio al buco della serratura e Lo-Cicero si arrampicò nell’inferriata spingendo lo sguardo nella semioscurità del corridoio. Due ombre nere si avanzavano, una alta e lunga, l’altra piccola e rotonda. Mariani non vedeva nulla, ma aveva riconosciuto il o di Marietta, le ombre si avvicinavano sul muro dirimpetto.

— Fai piano per carità!... — disse una voce femminile che fece sussultare i due rivali prigionieri.

— Sì amor mio, — rispose una voce maschile dalla spiccata inflessione sarda.

Successe un momento di silenzio, poi le due ombre arono silenziosamente abbracciate nel corridoio sotto gli occhi stupefatti di Lo-Cicero e si dileguarono.

Lo-Cicero scese dall’inferriata ed accese un fiammifero.

I due rivali si guardarono in faccia.

— Hai visto?

— No, ma ho sentito.

— Il sergente Sironi!...

— Con Marietta!...

— Siam suonati per benino!...

— Chi l’avrebbe detto: eh! Quella.... casta Susanna!...

E i due compagni di sventura si strinsero sorridendo la mano e si sdraiarono sul tavolaccio mettendo in comune la sconfitta toccata e le proprie coperte.

[121]

PICCHETTO ARMATO (IMPRESSIONI DEL PRIMO MAGGIO). 4b705f

I miei 40 uomini sono pronti: metto il kepì colla copertina bianca, sguaino la sciabola, mi aggancio la mantellina.

— Fianco-destr-march!

Usciamo dai quartiere a o rapido e cadenzato: i soldati sono quasi allegri; hanno il portamento fiero delle grandi circostanze; io invece sono di un umore perfido, non ho chiuso occhio durante la notte, e il caffettiere vicino mi ha avvelenato con una tazza di cicoria. È una splendida domenica di maggio, il cielo è tutto roseo, il Po ha una delicata tinta carnicina a riflessi di argento; certe piccole nubi, migranti per l’aria, sembrano batuffoli di bambagia; come un gran riso di letizia scende dal cilestrino chiaro dell’alba, sale dal verde dei giardini e della collina.

Non mi pare possibile che una giornata così bella debba essere funestata da disordini.

Traversiamo il Valentino; nelle aiuole fiorite scintillano le perle della rugiada, dalli alberi fioriti sale come l’inno [122] profumato di maggio, tutto freme, tutto vive, tutto canta; la sabbia stride sotto i nostri i.

Camminando, penso agli strani e dolci occhi della signora D.... che ho accompagnato a casa un’ora fa; mi ritorna alla mente la meravigliosa somiglianza di lei e della figlia; gli stessi occhi d’un bigio azzurrino quasi metallico, la stessa taglia slanciata ed elegante, il medesimo profilo fine, marcatamente aristocratico; sotto le palpebre sonnolenti, si disegna la splendida immagine della signorina Maria X, una testina meravigliosa sopra un corpo sottile d’adolescente. Nelle orecchie mi ronza tuttora il trillo acuto dei mandolini, la cadenza birichina dell’ultima polka....

Ore 5¾.

Siamo all’ergastolo. Mettiamo le armi al fascio nel cortile, poi i soldati si sbandano; il capo guardiano mi fa preparare una camera.

— La prigione delle donne, — mi dice la moglie del portinaio.

— Ah! E quante ce ne sono?

— Trecento.

— Capperi!...

eggio un po’ per i cortili cercando di vedere traverso le persiane verdi e le inferriate massiccie. Ma non vedo nulla e un sonno pesante mi chiude le palpebre. La mia camera è preparata. Vado a buttarmi sul letto.

Ore 10 ant.

L’arrivo del tenente colonnello ha interrotto il mio sonno pesante; ho messo in rango i soldati, ho dato le novità coll’aria perfettamente stupida di chi è destato di soprassalto nel primo sonno, poi il tenente colonnello se n’è andato; mentre si chiudeva dietro di me il pesante portone di ferro, il cappellano, un ometto piccolo dalla fisonomia intelligente, mi ha detto premurosamente:

[123]

— Tenente, lei ha l’aria molto stanca, ritorni a riposare.

— Grazie, da giovedì che siamo tornati non ho certamente dormito otto ore a causa di questi torbidi operai....

E aggiungo mentalmente una filza di imprecazioni a denti stretti.

— Poveri giovani!...

eggiamo insieme nel cortile tutto ombreggiato di grandi alberi verdeggianti; egli ha sotto il braccio un enorme registro e fiuta di tanto in tanto una presa di tabacco da una vecchia tabacchiera di legno. Qualche suora grigia e qualche guardiana traversano rapidamente il cortile pieno di sole e di frescura. Regna una pace grande di chiostro.

— ... Ne abbiamo trecento — disse il buon pretuncolo annasando la sua ventesima presa di tabacco, — e sono divise in varie categorie: quelle condannate a tempo, le recluse e le carcerate. Quindici suore di carità, quattro o cinque guardiane, tengono a posto meravigliosamente bene queste trecento reiette della società; è stupendo il servizio che fanno le suore e sono magnifici i risultati che ottengono: esse regnano colla dolcezza, colla persuasione, colla carità cristiana; provvedono alle scuole, alla chiesa, ai laboratori, ai lavori femminili; i migliori corredi da nozze e da battesimo che si vendono sotto i portici di Piazza Castello, sono opera delle condannate, le quali percepiscono una piccola mercede per ogni lira di guadagno fatta dall’amministrazione sulle vendite. Abbiamo qui delle delinquenti famose e tutti i delitti vi sono rappresentati ed hanno il loro colore speciale; predominano l’infanticidio e l’omicidio; le donne che hanno sulla coscienza dei delitti di sangue sono vestite di rosso; le ladre, le falsarie, vestono di grigio, le donne di mala fama in color caffè scuro.

Le varie categorie non possono mai comunicare fra di loro; ognuna ha il suo cortile di ricreazione e la sua cappella in chiesa e le sue suore speciali.

[124]

In fondo non stanno male però, hanno due buoni ranci al giorno, del pane bianco di seconda qualità e tutte le domeniche la pietanza. Lavorano otto ore al giorno: assistono tutti i giorni alle funzioni religiose, imparano a leggere e scrivere e si perfezionano in qualche mestiere.

Molte, quasi tutte anzi, escono da questo ambiente moralmente rigenerate; quelle poverette che non escono ci muoiono tranquillamente e forse vanno in Paradiso, perchè Iddio terrà loro conto della espiazione.

— Povere donne!... — dissi.

— Oggi appunto — continuò il cappellano — c’è ufficio funebre per una povera reclusa morta improvvisamente questa notte per un’aneurisma; aveva da scontare diciotto anni di reclusione e ne aveva di già ati diciassette qui dentro. Era una bella donna sulla quarantina, di condotta esemplare, condannata per omicidio; il portinaio ch’è nella casa da oltre vent’anni, ricorda di averla veduta entrare. Una vera bellezza, uno splendido campione della razza abruzzese; anche ora, dopo diciassette anni di prigionia, conservava le sue fattezze regolari e la freschezza della carnagione; portava il numero 312.

— Come si chiamava?

— L’ho detto: 312. Le donne, entrando qui dentro perdono nome e personalità; diventano numeri, come gli uomini al bagno penale, precisamente. I loro nomi sono sul registro della Direzione e quasi nessuno li sa: alle volte esse stesse finiscono per dimenticarlo.

Una guardiana venne in quel punto a sollecitare il cappellano per le esequie: una immensa curiosità si era impadronita di me.

Certo il buon prete dovette leggerla nei miei occhi, perchè mi disse bonariamente:

— Se le fa piacere può assistervi anche lei.

— Grazie — e lo seguii....

[125]

***

Il corteo funebre si avanzava verso la chiesa. Quattro donne portavano una bara lunga e stretta ricoperta da una coltre nera frangiata di giallo; alla coltre un numero di panno rosso: 312.

Il cappellano indossò in fretta la cotta e la stola, prese l’aspersorio, si mise in testa al mesto corteo ed intuonò il più bello dei canti liturgici cristiani:

Miserere mei Deus secundum magnam misericordiam tuam.

Subito per l’atrio della chiesa si levò un coro di voci femminee di una straziante malinconia, le donne seguivano il feretro allineate, gli occhi bassi, le mani giunte sul petto e cantavano:

Et secundum multitudinem miserationem tuarum dele iniquitatem meam.

La frase liturgica, si svolgeva lentamente in un pieno accordo di toni, invadeva il cortile verdeggiante, saliva al cielo nell’aria profumata di maggio; dalli alberi rispondeva il gorgheggio degli uccelli, lo stormire lento delle fronde. Una zona bionda di sole feriva tragicamente il gruppo.

Amplius lava me ab iniquitate mea et a peccato meo munda me.

Entrammo in chiesa. La chiesa ha una navata centrale con un unico altare altissimo a cui si accede per mezzo di due gradinate; è divisa in due piani e in tante cappelle separate, quante sono le suddivisioni delle povere prigioniere. Le cappelle sono divise dalla navata centrale da pesanti inferriate. Tutte le cappelle erano occupate dalle recluse che pregavano in ginocchio; nella luce chiara della chiesa i colori spiccavano; dominava il rosso, un [126] rosso scuro di sangue umano coagulato, luccicavano i bianchissimi scapolari delle monache, il grigio serviva di fondo.

Ora cantavano tutti i meravigliosi versetti del Miserere; nel coro si distinguevano le voci giovanili fresche e squillanti, le voci senili più basse, più fioche, quasi velate; pure era una bella fusione armonica di toni vocali, era come una sinfonia di anime preganti la pace eterna all’estinta. Appoggiato ad una delle colonne d’ingresso col kepì tra le mani, io fissavo il feretro dove il numero 312 campeggiava sinistramente sulla coltre nera, e pensavo. Traverso la coltre funebre e le tavole d’abete della cassa mortuaria, io vedevo la morta. Era vestita di bianco, aveva le mani incrociate sul petto le palpebre chiuse nella pesantezza del sonno eterno; il volto ed il collo di una bianchezza cerea conservavano ancora una calda tinta vitale. E la immaginavo a vent’anni, le nerissime chiome scendenti sulli omeri, le labbra rosse aperte al sorriso sulla chiostra luminosa dei denti, il giovane seno rigoglioso e fremente, le anche procaci. Per una specie di divinazione, ricostruivo la storia della sua vita travagliata, rievocavo l’immagine delle fanciulle abbruzzesi, delle belle stornellatrici di D’Annunzio, ritte, coll’arco lunato della falce, tra il fieno alto e odorante. Ecco, lontano splende in lamine d’oro il

... flagrante verde adriatico

sul cielo di berillo splende il sole feroce di mezzogiorno, in fondo nereggia di abeti la Maiella, sul greto mormora strani accenti la Pescara.

Anche lei canta con le compagne i dolci stornelli paesani e la sua voce sale acutissima nel cielo, scende dolcissima nel cuore di un uomo che la ascolta nascosto tra i giuncheti della riva, pazzo di desiderio. Poi cade la sera; cielo, mare, monti, giuncheti, tutto annega dolcemente in un color violetto tenero, ricco di sfumature; [127] più acuto sale il profumo del fieno tagliato, più acute salgono le voci delle cose, indistinte.

È l’ora dell’amore.

Tra i giuncheti ella trova l’amatore aspettante: ella ha ancora del sole negli occhi, nei capelli, nel sangue: un languor dolce è per tutto; i pioppi della riva hanno accenni di assentimento, le erbe accasciate della canicola si rilevano alla brezza, frementi; le acque della Pescara narrano una pietosa storia d’amore.

Egli la prende alla vita, gli occhi ardenti di desiderio, le labbra ardenti di desiderio, tutte le membra frementi di conquista....

Il cielo, il mare, i monti applaudono; i pioppi della riva salutano.

Quell’uomo la porta via in paesi lontani, nei paesi freddi del Nord dell’Italia; ella lo ama furiosamente, ne è furiosamente gelosa, ma egli non le bada più; una notte l’abbandona furtivamente nella soffitta senza un soldo, senza un tozzo di pane, dopo averle impegnato i larghi cerchi d’oro che ella portava alle orecchie. Al mattino ella balza in piedi come una pantera ferita e si precipita fuori della soffitta stringendo nervosamente sotto il grembiale un affilato coltello a serramanico. Traverso ai vetri dell’osteria lo vede accanto ad un’altra donna, colle palpebre dipinte di nero, le guancie spalmate di carminio; bevono ambedue allegramente guardandosi negli occhi, sorridendosi.

D’un balzo ella gli è sopra, gli immerge il pugnale nel petto e ferisce replicatamente la rivale, poi il lungo coltello a serramanico le cade di mano, una fitta nebbia di sangue le cala sugli occhi e la instupidisce.

In prigione, non parla più, lavora in silenzio assorta sempre nella visione di lui, intenta a sentire quello che di lui le dicono le cose ed il suo cuore.

E vive diciasett’anni così, collo spasimo di quell’amore fitto nell’anima come un chiodo sempre rovente, colla [128] continua visione del suo morto che le turba e le consola i sonni. Una notte di maggio tutta scintillante di astri ella si rivede con lui tra i giuncheti come la prima volta, quando tutte le cose annegavano nella luce violetta del cielo, quando per la prima volta i suoi sensi e l’anima sua annegavano nella voluttà. L’impressione è troppo forte, ella si desta di soprassalto pallidissima, tutto il sangue le è rifluito al cuore e il cuore troppo gonfio si spezza.

Ella è morta così.

Et lux perpetua luceat ei.

Requiescat in pace — intuona il cappellano.

Amen!... — rispondono le trecento voci mestamente.

Amen!... — aggiungo io sottovoce; le donne in lungo ordine portano via il feretro, le quattro che lo sorreggono sono vestite di lana rossa come era vestita lei, perchè aveva versato del sangue; le monache seguono, li occhi dolcemente rivolti al cielo mormorando l’ultima preghiera, le mani giunte sul petto. È finita; ella non è più nemmeno un numero, non è più nemmeno una cosa, domani ella dormirà nel campo santo torinese, lontana dal suo mare, dai suoi monti, dalla sua Pescara, dai suoi campi gialli di sole, dove ha amato la prima volta, dove ha gettato nell’aria vespertina le cadenze blande degli stornelli meridionali.

Requiescat in pace! — dice per l’ultima volta il prete.

Sì, pace a questa povera martire del più forte tra i sentimenti umani, a questa vinta dell’esistenza!

Amen!

Ore 10 pom.

Giunge l’ordine di rientrare in quartiere; i disordini sono finiti.

Riiamo per il Valentino illuminato da una luna magnifica; molta gente vi eggia, signore, signorine, fanciulle. Di tanto in tanto si incontrano gruppi di operai [129] che ci guardano biechi, gruppi di soldati a cavallo che scortano prigionieri. Anche questi sono i vinti dell’oggi, gli sconfitti nella lotta rude dell’esistenza. Povera gente!

La luna alta sorride a tutti, si specchia con civetteria nelle acque del Po, si posa sui balconi marmorei dei ricchi, sulle guglie delle chiese con lattei languori, indifferente a tutte le nostre miserie. Un gruppo di monache grigie traversa in fretta un viale dirigendosi ad una chiesa aperta; le buone donne vanno a pregare per tutti, ricchi e poveri, fortunati ed infelici, vincitori e vinti, oppressi ed oppressori. Benedette!...

Compagnia alt!

Siamo in quartiere.

[131]

PASQUA IN FORTEZZA 4y3v1t

Exilles.... 1893.

Amica mia, questa mattina, quando il soldato è entrato nella stanza ed ha aperto le imposte, una bella striscia luminosa di sole è entrata improvvisamente, balzando sul letto, rifrangendosi sulla parete dirimpetto.

E il soldato, il buon Cornacchia, te lo rammenti? mi ha detto con una grande allegria nella voce:

— Signor tenente, oggi è Pasqua.

— Va bene, dammi il caffè.

Nel dormiveglia tentavo di continuare il sogno interrotto bruscamente. In verità non potrei dire che fosse un sogno; era più che altro un lavoro della memoria che ricostruiva, minuto per minuto, una mezza giornata della mia esistenza. Sorbendo il caffè caldo, pensavo all’ultima domenica che avevamo ato insieme a Torino, rammenti? alla nostra eggiata triste su quel lunghissimo viale Margherita, dagli alberi tutti brulli, illuminati da un sole pallido. Io ero in borghese e ti davo il braccio, tossendo a piccoli colpi secchi ogni minuto, e ti narravo [132] tutta l’odissea delle mie disgrazie, non tacendo nulla, nemmeno i miei torti, come ad un fratello, come ad un amico. Era una giornataccia: nel cielo larghi fiocchi di nuvole bigie si inseguivano, ando dinnanzi al sole pallido, stendendo come una cortina di piombo; qualche sprazzo d’azzurro qua e là che lasciava are un fascio di raggi bianchi, e una striscia di nuvole nere in fondo che serrava l’orizzonte come una coltre funebre.

Gli operai vestiti a festa ci guardavano curiosamente al aggio; tutta graziosa tu, colla giacchetta di velluto marrone a galloni d’oro, colla veste azzurra, di un azzurro opaco indovinatissimo; tutto frettoloso io col bavero dell’ulster alzato e il foulard fino alle orecchie. Traversammo Porta Milano, ci internammo nella galleria nuova, dove la musica suonava; si pareva uccelli dispersi noi due tra quel popolino indomenicato (la parola è brutta, ma è italiana) che si divertiva. Entrammo in una birreria, domandammo qualche cosa;... tu mi facevi coraggio, mi dicevi di sperare e avevi invece nella voce la disperazione e un gran dolore nel cuore che traspariva dagli occhi....

— Sor tenente, sono le nove, — mormora Cornacchia.

— Sta bene: dammi i vestiti.

La zona di sole ha invaso trionfalmente la stanza, si è impadronita del letto e della parete di fronte mettendo dei lucciori dappertutto; dalla finestra aperta entra un’arietta fresca, refrigerante, profumata di ginepro; un gran pigolìo di eri è nell’aria.

Mi vesto, scendo in cortile a far la eggiata mattutina, mentre Cornacchia mi fa il letto e mi prepara la colazione.

Il cantiniere mi dà la buona Pasqua.

Grazie, e sorrido. Dio mio, no, non deve essere stato un sorriso molto allegro quello, e nemmeno molto triste: oramai credo di aver persino dimenticato le dolci consuetudini di certe solennità famigliari. Pasqua? Natale? Capo [133] d’anno? Giorni un po’ più tristi degli altri per il cumulo delle dolci memorie che risvegliano: ecco tutto.

Camminando adagio, adagio, respirando a pieni polmoni, giungo alla batteria da 15, che ha i pezzi in barbetta sul fianco sinistro del forte. Tutto il forte, nero, ferito dal sole, sembra meno tetro, sembra ringiovanito. Sotto a la Dora, stretta tra le ripe di macigno come un cane al guinzaglio, urlando. A destra, sul contrafforte, ancora qua e là bianco di neve, si erge minaccioso nell’ombra il fortino di Serre la Garde; ma tutta la vallata a monte si perde in sfumature di verde tenero e di viola pallido, maculate di larghe striscie bianche, e per gli alberi scarni corrono i primi brividi della vita, e dalla terra smossa sale il potente odore dei primi germogli.

È Pasqua, è Pasqua; ecco, da un piccolo tuffo d’erbe ho colto questa viola piccola, non ancora dischiusa, la prima viola di questi monti, forse, e te la mando. Nota la coincidenza curiosa: è nata proprio a due palmi di distanza dalla gola nera di un enorme cannone da 15....

I soldati sono fuori tutti, per il paese; anche i consegnati; nel cortile però un coscritto seduto al sole sta facendo asciugare un paio di uose.

— E voi perchè non siete uscito? — gli domando.

Il coscritto si alza, diventa rosso, abbassa la testa.

— Sor tenente, non tengo soldi....

La ragione è indiscutibile; mi frugo in tasca, gli metto in mano qualche lira.

— Tieni, vai a so; bevine un bicchiere alla mia salute.

— Sor tenente!...

— Silenzio! non si rifiuta mai: prendete!

Il buon diavolo intasca i danari, mi fa un saluto di perfetta ordinanza e se ne va in camerata colle sue uose non completamente asciutte: più tardi mi ria davanti in gran tenuta, i guanti bianchi, la trecciuola sul kepy, sorridendo come un uomo felice.

Due lire fanno felice un uomo, e anche meno talvolta....

[134]

***

Quasi in compenso della mia buona azione la posta mi ha recato una lettera tua e un letterone da casa: tutta la famiglia che mi scrive. Nel leggerle e nel rileggerle ho ato due ore di una tristezza deliziosa. Come sei stata buona a ricordarti di me, a farmi coraggio! Subito ho pensato ai nostri progetti di quella domenica, che tu non hai nella lettera voluto rammentare, pensando che ciò avrebbe aumentato la mia tristezza. Povera amica!... Ma io ci ho pensato e ho scosso il capo, ricordando quante volte il destino aveva traversato i nostri progetti così bene architettati, e mi è venuta l’idea di non farne mai più, di lasciarmi vivere così, in balìa del caso, senza illusioni, senza speranze, senza desiderii. Poi ho sorriso di me stesso e di questa idea. Che sciocco! spero di rivederti; come farei se mi mancasse questa speranza; come farei?

La lettera di mamma è corta e dice un mondo di cose buone e commoventi. Senti, cosa mi dice la mamma: «Perchè tu dovevi venire, Roma, la tua eterna amante, si parava de’ suoi colori più belli sotto la carezza del suo splendido sole; il Pincio, la tua eggiata prediletta, è tutta una fioritura lussureggiante; i pioppi della Villa Borghese rinverditi, stormiscono ed hanno quel fruscìo particolare di seriche vesti femminili, che a te piace tanto; la via Nazionale è un’apoteosi di luce, il laghetto di Villa Pamphili è azzurro come una turchese e trasparente come il cristallo.... Ma tu non vieni e allora nel cielo della nostra Pasqua famigliare a la brutta nuvola della tua assenza e Roma non mi piace più». Povera e santa donna, quanto affetto in quelle poche righe, quanto dolore in quelle poche parole!... Ecco, ora ridivengo triste, di una tristezza cupa, fatta tutta di ricordanze e di rimpianti.

[135]

Saranno fanciullaggini, ma certi ricordi dell’adolescenza, quando mi assalgono all’improvviso, mi mettono subito nella gola un nodo doloroso di pianto e lo stimolo delle lagrime negli occhi. Ahimè! soltanto lo stimolo, che è come uno spasimo acuto che non trova sfogo mai nelle lacrime.

Quello che rende la mia memoria più terribile è la visione fisica perfettissima delle cose e degli uomini: io non so; pare quasi che i fantasmi evocati dalla memoria si coloriscano nella retina dell’occhio di tutti i loro colori reali. Ora per tutta la giornata e per molti giorni ancora io non saprò togliermi dall’anima la visione del Pincio tutto fresco e odorante come un mazzo enorme di fiori, la visione di Via Nazionale e del laghetto di Villa Pamphili, il fruscìo femminile dei pioppi di Villa Borghese che stormiscono, che accennano coi vertici acuminati al perpetuo dubbio della vita....

***

Che ti parli di me? Sarò noioso, amica mia; la mia vita anche quando è allegra, è triste come un ideale mancato; ora poi non può essere allegra, figurati!...

Dopo il fatto, lo sai, stetti alcuni giorni in quartiere agli arresti di rigore, aspettando.

Tre giorni fa, mercoledì mi pare, arrivò l’annunzio: due mesi di fortezza ad Exilles.

La notizia lì per lì non mi fece nè caldo nè freddo: anzi mi meravigliai che non me ne avessero dati tre, come prevedevo.

Chiusi i bauli, sbrigai alcuni affarucci e partii. Ricordo che ordinai al cocchiere di are sotto le tue finestre; c’era il sole, speravo di vederti perchè so che ami tanto il primo buon sole di primavera. Le finestre erano aperte, [136] anzi sull’ultima di destra era disteso il tuo abito azzurro di quella domenica, orlato da una sottile striscia di sole, ma tu non c’eri. Alla stazione comperai molti giornali e non ne lessi nemmeno uno: era quasi solo nello scompartimento e col viso al finestrino fumavo, fumavo.... Le ore son ate così in una perfetta assenza di pensiero. È la prima volta che ciò mi accade e darei qualunque cosa perchè mi accadesse un’altra volta, perchè è una cosa deliziosa che ora non mi so più spiegare: una specie di catalessia mentale; si vede tutto, si capisce tutto e non si pensa a niente, il cervello in perfetto riposo.

Che cosa strana!...

Scesi a Chiomonte, il grazioso paesetto dei villeggianti, e fino ad Exilles mi feci la strada a piedi. La strada mi era nota: l’aveva percorsa tante volte nell’autunno in buona compagnia, e nell’inverno sulla slitta tutto ravvoltolato nella mantellina; una strada assai pittoresca, che costeggia la Dora spumeggiante da una parte e rode i fianchi aspri del contrafforte del Gran Seren dall’altra, con voltate brusche e frequenti; su tutti i declivi era ancora la neve alta.

Quando vidi il forte, il pensiero della prigionia mi strinse subito il cuore come una morsa; il forte nero, visto dalla strada su quella specie di masso morenico sovrastante alla Dora, ha un aspetto sinistro; pare il castello dell’innominato, pare un covo di banditi appostati sull’altura per sbarrare la strada.

Poi cominciò la dolorosa Via Crucis della salita, una salita eterna tra i campi a destra e i castagneti a sinistra, che mostrano qualche strappo di verde tra il bianco uniforme della neve. E su, su, faticosamente, per la Rampa Reale acciottolata, senza aver nell’anima l’ideale ed il grido del pellegrino di Longfellow; anzi!...

Arrivai su che imbruniva: mi fu assegnata una delle stanze prospicienti al cortile, e mi si disse che al mattino seguente il signor comandante del forte mi attendeva per la visita di dovere.

[137]

Mi buttai sul letto tutto vestito e mi addormentai di un sonno di piombo.

***

Il comandante — un maggiore d’artiglieria — fu assai gentile; mi assegnò tre ore al giorno di eggio nel forte, e si fece dare la parola d’onore che non sarei uscito: insieme alla parola gli diedi anche la sciabola, che egli chiuse in un armadio.

Non mi vergogno a dirlo: distaccandomi dalla mia sciabola, fui preso da quel nodo doloroso alla gola e da quello spasimo acuto negli occhi, che sono il mio pianto, un orribile pianto angoscioso.

Più tardi, aiutato da Cornacchia, disfeci le casse; sai ho portato tutto; i miei libri, i miei giornali, la tavolozza, i colori, il mandolino....

Subito alla testa del letto, dove mia madre ci vorrebbe sempre vedere la Madonna della Seggiola, ho fatto un trofeo di ritratti; tutti i ritratti di famiglia; in mezzo vi campeggia quello grande di papà, quell’augusta figura di vecchio dalla fronte serena, che mi ricorda i bei versi di Luigi Giulio Mambrini:

E conscio omai d’essere al duolo offerto,

al duolo attinge sopra uman coraggio,

indi sereno gli permane un raggio,

il glauco raggio del grande occhio aperto.

Tra quello delle mie due sorelle ho messo la tua fotografia, quella di profilo, un po’ malinconica, ma tanto bella; sei contenta?...

Più in là ho fatto un altro trofeo: quello degli amici e.... tanto lo sai, delle amiche: ed ho tirato fuori tutta la mia biblioteca e tutti i miei scartafacci nell’intento di studiare molto, di lavorare molto. Ci riuscirò?

[138]

Dietro il paravento, Cornacchia mi prepara il pranzo pasquale. Che Dio me la mandi buona!

***

Da tre giorni faccio questa vita; mi alzo verso le nove, lavoro dalle nove alle undici, dalle due alle sei e dalle otto a mezzanotte: ho molta carne al fuoco e molti progetti per la testa....

Figurati, sto pensando ad un romanzo di cui tu sarai l’eroina.... Ti piace l’idea?...

Al momento di chiudere la lettera mi si presenta Cornacchia, con una di quelle sbornie classiche che fanno epoca; è accompagnato da un patriotto che lo sorregge per le ascelle. Viene a domandarmi se ho bisogno di niente.

— Se ho bisogno di niente? — grido io arrabbiato — Sei tu, pezzo d’asino, che avresti bisogno di qualche cosa.... lo so io di che cosa.... Vai a letto subito piuttosto.... animale!...

Il patriotto, accompagnandolo fuori della porta, alquanto male in gambe anche lui, mi dice con uno sguardo che intercede la grazia:

— Sor tenente.... è Pasqua....

Già — penso io — è Pasqua oggi: almeno gli altri lo dicono!...

Ma non mi lamento però, sai? la mia Pasqua l’ho ata con te.... in ispirito, pur troppo!

[139]

LETTERA DI NATALE 634t4u

Dai ricoveri del M. Genevris 24-12-91.

Mia buona mamma,

Sono le dieci del mattino e nei ricoveri è buio pesto; ti scrivo al lume rossiccio della stufa che russa come un cosacco, ed a quello problematico di una candela di sego che caporal Vernucchio ha avuto la buona idea di portare con sè. I soldati preparano il rancio dietro le indicazioni gastronomiche del caporal maggiore Lampertico, e Sassara, il mio attendente, mi prepara un brodino succolento con delle scatole di carne in conserva.

Così o il mio Natale a 2531 metri sul livello del mare e penso a voi tutti, e ti scrivo perchè tu sappia che, almeno in ispirito, io sono sempre in mezzo a voi. Ma non ti ho ancora detto come mai il giorno di Natale, io mi trovi sepolto nella neve, nei ricoveri del monte Genevris, con 14 gradi sotto zero di freddo, e con due soldati che giacciono sofferenti per congelazione degli arti inferiori. O senti dunque.

L’altro ieri (era l’antivigilia di Natale) arriva per la [140] posta l’ordine della Divisione di mandare un drappello di soldati ed un ufficiale al monte Génevris, per fare un’inventario degli oggetti in caricamento ai ricoveri. Toccava a me, naturalmente, e, naturalmente, nevicava.

Il maggiore mi disse:

— Se la sente?

— Per me.... si figuri!... Sarà un po’ dura per i soldati....

— Basta.... si provi!...

Siamo partiti alle otto del mattino; i miei quindici uomini erano allegri; tutti avevano il cappuccio di lana, i grossi guanti di lana, le racchette appese al gancio della sciabola-baionetta, il fucile a tracolla; due portavano il badile e due la gravina sulle spalle; dalle tasche di dietro dei cappotti spuntavano le cannuccie delle pipe, i tascapani erano rigonfi della grossa pagnotta di munizione. Sassara, era bellissimo col suo musetto di faina col suo cappuccio di lana marrone e l’alpenstock fieramente impugnato.

— Siamo pronti? — domandai a Lampertico.

— Pronti, signor tenente.

— Allora, fianco-destr.... march!

Nevicava a larghissime falde e il paesaggio intorno scompariva nel biancore della neve caduta: appena fuori del paese, sulla scorciatoia di San Marco, si affondava nella neve sino al collo del piede, e si sdrucciolava a quando a quando sugli strati di ghiaccio qua e là scoperti.

Ad ogni caduta un clamore di risa si levava, un vivace scoppiettìo di frizzi, di barzellette, di epigrammi in tutti i dialetti. Il caduto si rialzava un po’ contrariato, un po’ sorridente, masticando una giaculatoria, scuotendo la neve di cui si era riempito i guanti e le maniche, riaccendendo la pipa.

Quando fu la volta di Di Giorgi, il povero seminarista che studiava nelle ore libere per prendere gli ordini minori, quel mattacchione di Rocco Saltara disse forte:

— Sia per l’anime del Purgatorio!

[141]

E Sassara, tra le risate di tutti, rispose con voce nasale da sagrestano:

Amen!...

Di Giorgi si rialzò e si rimise a camminare colla sua solita aria rassegnata e sofferente.

Si traversò il paesucolo di San Marco senza vedere un’anima; la fontana della piazza era tutto un ricamo di ghiacciuoli; immensi lastroni di ghiaccio sporco comparivano qua e là sul bianco.

All’ultima casa una vecchia contadina si affacciò sulla porta della stalla e ci guardò a sfilare, attonita. I soldati la salutarono.

— Dove andate? — domandò la vecchia.

— Al Génevris — rispose Rocco Saltara.

— Mamma mia!...

E giunse le mani in croce, volgendo gli occhi al cielo e crollando la testa in segno di dubbio.

Lasciammo San Marco e pigliammo la strada maestra. Più si saliva, più si sentiva la raffica gelata; tuttavia si camminava di buon o e di buon umore; i soldati cantarellavano allegramente, o fumavano, o sbocconcellavano il pane. Sanpietro e Pigliapoco, i due anziani della classe di ferro, parlavano del futuro Natale che avrebbero ato alle loro case, alzando la voce per suscitare l’invidia degli altri.

— Qualcuno non la mangia più la gavetta del Governo, quest’altro anno!... — diceva Pigliapoco, con quell’accento di superiorità che fa tanta impressione sui coscritti.

Appunto anch’io pensavo che, dal giorno che partii soldato, ti ricordi? cioè da dodici anni a questa parte, non ero mai riuscito a are con voi la dolce festa familiare. E mi venivano alla mente un’infinità di piccole memorie, una folla di piccoli ricordi. Povera mamma, quanta pazienza devi aver avuta con noi quando eravamo tutti piccini e volevamo fare il presepio sull’armadio della saletta d’entrata, e ti mettevamo in croce perchè tu ci [142] comprassi i pastorelli, quelli fini da tre soldi l’uno, che si vendevano in piazza Navona!

E io mi ricordo benissimo che ero il più accanito, il più insistente, il più noioso, io che piagnucolavo quando tu mi compravi quelli da un soldo, così grossi, così tozzi, tutti d’un pezzo, colle gambe unite, con quell’aria così goffa, che faceva pietà! Gli è che fino da allora, vedi mamma, io avevo di già anche troppo sviluppato il gusto delle cose belle e dei piaceri estetici, che ora mi inchioda per delle ore dinnanzi ad un quadro od una statua; che mi rende infelice quando la mano o l’ingegno sentono la loro impotenza nella riproduzione, dirò così, materiale della immagine che mi si disegna nel cervello con tanta chiarezza. Gli è che.... Ma io, come al solito, divago. Pensando al presepio, pensavo dunque a voi tutti: rivedevo la faccia serena del babbo con i suoi bei palmerston d’argento, che gli dànno l’aria di un diplomatico, e i tre bei visini delle sorelle, così differenti e pur così identici nell’espressione della bontà, il volto più grave di Edoardo, il musetto biricchino di Antonio.

E pensavo al vostro bel pranzetto di Natale, ai cappelletti alla bolognese, nuotanti nel brodo di cappone dai grandi occhi d’oro; allo zampone di Modena di un bel rosso cupo sul giallo crema della purèe di patate; all’enorme pan dolce di Genova, caldo e rigonfio e pieno di zibibbo e di pistacchio; al bruno pan forte di Siena, tutto nero punteggiato qua e là dal bianco delle mandorle; ai mandarini di Palermo, di un bel giallo d’oro di Napoli.

Vedevo a tavola il mio posto vuoto colla mia fotografia sul piatto, delicatissimo pensiero di mamma affettuosa, e mi pareva di sentire la voce tenorile di Edoardo, che declamava i martelliani del brindisi. Bei tempi quelli, eh mamma?

Basta: assorto in questi dolci ricordi io camminavo rapidamente e macchinalmente, senza sentire il freddo nè [143] la fatica dell’ascensione, nè la neve gelata che mi schiaffeggiava il volto, spinta da un vento rabbioso.

Ad un tratto mi vidi dinanzi i muri a secco neri e screpolati delle casupole di Sauze d’Oulx, l’ultimo paesetto dopo il quale bisognava affrontare risolutamente la montagna, senza aver più la speranza di un asilo. Mi accorsi allora che camminavamo da due ore e mezzo sotto quella raffica di neve, che avevo le mani e i piedi perfettamente gelati, che il mio stomaco vuoto gridava vendetta al cospetto della colazione, la quale dormiva inoperosa nel tascapane di Sassara, e decisi di fare alt.

A Sauze d’Oulx c’è un tabaccaio che fa, viceversa, anche l’oste e l’ufficiale di posta. Entrammo nella sua retrobottega dove russava una enorme stufa di ghisa; ordinai due litri d’acquavite per i soldati e un vino caldo per me, e attaccai energicamente la bistecca che Sassara aveva gelosamente riposta tra le due metà di un bel pane.

I soldati facevano ressa intorno alla stufa, che mandava un delizioso calore.

— Ah! come si sta bene qui!...

Il tabaccaio e sua moglie, servendo l’acquavite domandavano meravigliati:

— Ma dove andate?

— Al monte Génevris.

— Con questo tempo?

— Con questo tempo.

— Non arriverete; c’è la tormenta.

— Bisogna arrivarci — risposi io, per troncare la discussione poco incoraggiante — abbiamo ordine d’arrivare!

Pure più mi conquistava il benessere del cibo e del calore di quella stanzetta, più mi mancava il coraggio di proseguire; rimaneva da farsi il più difficile; attaccare risolutamente la montagna, camminando alla cieca nella neve sino al ginocchio, con quella tormenta orribile che accecava e levava il respiro.

Sarei riuscito a portar lassù sani e salvi i miei quindici [144] uomini? E avrei potuto tornar indietro prima che si fe notte? Ma quel «se la sente?» del maggiore mi ritornò all’orecchio come una amara ironia, e mi punse come un colpo di sperone. E subito mi levai in piedi, mi rimisi i guanti ed il cappuccio, accesi il sigaro, e pagato il conto diedi il segnale della marcia.

Sulla porta della bottega il tabaccaio mi diede l’ultimo ammonimento.

— Signor tenente, torni indietro; lassù non ci si arriva!

E additava, col braccio e coll’indice distesi, i contorni appena visibili della montagna.

L’ammonimento disinteressato ottenne l’effetto contrario: mi spronò a proseguire.

Appena fuori del paese ogni traccia di sentiero scomparve; dinanzi a noi era l’immensità bianca di un candore scintillante che offendeva la vista: il nereggiare di un bosco d’abeti rompeva solo quella triste uniformità di bianco.

Ci dirigemmo al bosco, camminando sulle orme di Sassara e di Pigliapoco, che andavano di punta, colle racchette legate alle scarpe; malgrado ciò si affondava fino al ginocchio nella neve molle che cedeva ad ogni o, rendendo assai faticosa la marcia. Sotto il cappuccio, lungo il collo, lungo la schiena, grosse gocciole di sudore colavano, che il freddissimo vento ghiacciava. La neve ora seguiva le folate del vento vorticosamente polverizzata e indurita, percuotendoci il volto con mille punture dolorose, penetrando dappertutto, imbiancando baffi e capelli e sopracciglia.

Camminavano in fila uno dietro all’altro nel medesimo solco, come una sinistra processione di spettri, nel silenzio desolato della montagna.

Come Dio volle, giungemmo al bosco degli abeti, dove Sassara e Pigliapoco accesero un magnifico falò di rami secchi. Ci scaldammo ben bene, bevemmo un altro sorso d’acquavite, e via....

[145]

Io non rammento bene quanto tempo abbia camminato; ricordo che quando partimmo dal bosco era mezzogiorno preciso; ricordo anche che prima di giungere alla vetta, dove c’è il segnale trigonometrico, Di Giorgio e Lapertuso mi dissero con voce spenta:

— Tenente, non ne posso più!

Io feci unire insieme con un nodo le due funicelle da zappatore, e prima di affrontar l’ultima china, la più pericolosa, ci legammo tutti, io in testa, il caporal maggiore Lampertico alla coda. Ma da quel momento io non ricordo altro, se non che avevo un gran bisogno di correre, di correre all’impazzata, per sottrarmi al gelo che mi pervadeva tutto, che penetrava per tutti i pori, che mi gelava il sangue nelle vene: il bisogno di sottrarmi al martirio di quelle mille trafitture, al martirio di quella tormenta che mi toglieva il respiro. Non so quante volte sia caduto, quante volte mi sia rialzato: ogni tanto sentivo dietro di me un tonfo sordo e uno strappo doloroso della corda al braccio destro; ma non capivo: avevo nelle orecchie un sinistro ronzio e camminavo come spinto da una forza soprannaturale. I ricoveri! i ricoveri! Oramai i ricoveri non erano più soltanto il dovere, erano la salvezza: bisognava arrivare ai ricoveri subito per non cadere nella neve estenuati, per non morire. Qualche cosa di nero mi si rizzò dinanzi: era il palo, il segnale trigonometrico. Trovai ancora la forza di gridare:

— Avanti! siamo ai ricoveri!...

Ma appena giunti sulla cresta (una cresta a lama di coltello) ci fu forza camminare quasi carponi per non essere rovesciati nel baratro che ci si apriva sotto, il baratro pauroso del Chisone. Il cielo era nero, il vento soffiava con una indicibile violenza; non si vedeva più nulla, non si sentiva più nulla.

— I ricoveri! i ricoveri! — urlò Sassara, che per il primo aveva scoperto i tetti scuri tra la neve.

Cominciò allora la discesa precipitosa nel versante del [146] Chisone; sentii allentarsi la corda e un galoppo furioso dietro di me; mi arono dinnanzi come ombre gigantesche i quattro soldati delle gravine e dei badili, e tutti raccoglievano le ultime loro forze per giungere più presto a riscaldarsi.

I ricoveri erano sepolti nella neve; bisognava sbarazzare la porta a furia di pale e di gravine; fu un lavoro febbrile di mezz’ora, mezz’ora che parve un secolo di spasimi, le mani irrigidite e le punte delle dita in fiamme, i piedi diventati blocchi di ghiaccio.

Come la porta fu sgombra, nessuno aveva la forza di aprirla; la chiave pareva scottasse fra le mani, un’impazienza feroce teneva tutti.

Finalmente la porta cedette agli sforzi. Entrammo. I ricoveri erano gelidi, pieni di neve; ci volle un’altra mezz’ora per accendere il fuoco; poi, come la legna cominciò ad ardere, tutti fecero ressa attorno alla stufa, e allora soltanto potei contarli.

Erano tredici; ne mancavano due. Di Giorgio e Larpertuso!

Quello che provai in quel momento, mamma, è difficile che tu possa immaginarlo; fu come se mi avessero piantato nel cuore una lama diaccia e sentii i capelli drizzarmisi sulla testa, rigidi come serpenti. Pure indugiai prima di prendere una risoluzione; ero sfinito di forze e avevo troppo freddo; nemmeno mi sentivo il coraggio di comandare quattro o cinque uomini per andare alla ricerca dei caduti: quei giovanotti di vent’anni che si disputavano a spinte un posticino vicino alla stufa, lividi, paonazzi, assiderati, mi facevano pietà.

Non ti dirò come facemmo per ritrovarli; erano caduti prima di giungere al palo, sfiniti dalla stanchezza e assiderati; dovemmo portarli a braccia nei ricoveri dove la stufa mandava ora un delizioso tepore. Erano vivi per fortuna, ma entrambi hanno le gambe assiderate e soffrono, poveretti! incapaci del più piccolo movimento.

[147]

Il resto lo indovini, non è vero? Per fortuna questi ricoveri sono pieni di ogni grazia di Dio: legna, coperte, acquavite, galletta, carne in conserva, zucchero, pasta, lardo, tutto l’occorrente insomma per fare il rancio e per dormire. Naturalmente non c’era da pensare a tornare indietro.

Sassara mi ha preparato un bel letto con dodici coperte, abbiamo caricato di legna la stufa e ci siamo addormentati in un sonno di piombo.

***

Ora siamo prigionieri della neve e iamo il Natale quassù a 2531 metri di altitudine, in mezzo alla tormenta. Un Natale un po’ più triste del vostro, cara mamma, un Natale doloroso per quei due poveri diavoli a cui nessuna energica frizione di neve ha potuto restituire l’uso delle gambe, doloroso per me che soffro di vederli soffrire e su cui incombe una grave responsabilità, doloroso per il maggiore e per gli ufficiali del distaccamento che da due giorni mancano di nostro notizie. Ma, santo Dio! di chi la colpa? Come si fa ad ordinare certe escursioni ai 23 di dicembre sulle Alpi?

Scusami lo sfogo, sai. D’altronde il Natale volevo arlo almeno con te in ispirito: mangiando la mia zuppa di pan da munizione, mi vien fatto di ripensare ai tuoi famosi cappelletti nuotanti nel brodo di cappone dai grandi occhi d’oro; bevendo l’acquavite allungata coll’acqua, sospiro quel magnifico Chianti stravecchio che il vinaio ci regala ogni anno per Natale. E dopo tutto, veh! anche il ricordare volti e persone e cose care, a quest’altezza, in mezzo a poveri contadini ignoranti che mi vogliono bene, ha pure il suo lato poetico. La vita è fatta di contrasti, no?...

[149]

LA CACCIA ALLA VOLPE 6b4pj

Ma la burla più bella, la burla piramidale — saltò su a dire caporal Cipolla richiamato del ’69, alzandosi sulla panca per conciliarsi l’attenzione di tutti e forbendosi la bocca colla manica del cappotto, — la burla più indovinata l’abbiamo inventata noi al campo di *** in Lombardia. Tutte le vostre gherminelle riunite insieme non valgono la nostra caccia alla volpe improvvisata in una bella notte di luna....

— La caccia alla volpe? — domandarono in coro gli altri richiamati, solleticati dalla curiosità, disponendosi ad ascoltare, i gomiti sul tavolo e il volto nelle mani.

— Sicuro, una caccia alla volpe magnificamente preparata, stupendamente condotta, meravigliosamente riuscita; tanto è vero che la volpe non si trovò e la carne.... nemmeno. Abbiate pazienza, vi racconterò tutto per filo e per segno e poi giudicherete....

Si empì fino all’orlo un bicchiere di San Giovese, un vinettino razzente che a detta di Meucci (un altro dei [150] richiamati) scioglieva lo scilinguagnolo e rinfrescava la memoria; lo bevve tutto d’un fiato, il capo arrovesciato all’indietro e gli occhi socchiusi dal piacere, e cominciò:

— Quel giorno dunque ci avevano fatto accampare sul Ticino, nel luogo stesso ove finì la manovra: in quel punto il fiume corre incassato tra due ripe a picco, ma la magra delle acque lasciava scoperti, specialmente sulla riva sinistra, alcuni grandi tratti di letto sabbioso e sassoso sul più esteso dei quali l’aiutante maggiore aveva pensato bene di stabilire le cucine da campo. Detto fatto: e mentre una parte degli zappatori scavava le buche circolari, il rimanente, sotto gli ordini del sergente Tirinnanzi, costruiva una rampa d’accesso per le comunicazioni colla piattaforma superiore su cui il Reggimento era attendato. Insisto su questi particolari descrittivi per non essere obbligato a tornarci su, durante la narrazione.

— Tira via, tira via.... — dissero i più impazienti....

— Un momento! Bisogna sapere che il sergente fisso per le cucine era il non mai abbastanza famigerato Ciceri che pareva nato apposta per quella missione: or bene, il bravo Ciceri era appunto nativo del paesello nei cui dintorni avevamo messo il campo. Epperò, appena distribuito il rancio di pasta delle quattro pomeridiane, chiamò al gran rapporto i dodici caporali di cucina, diede gli ordini per il rancio di carne che si doveva distribuire alla sveglia e concluse:

— Questa notte io me la batto e vo a ar qualche ora coi miei vecchi: vediamo di far le cose con giudizio ed in maniera che nessuno abbia ad accorgersi della mia assenza: e se sarò contento di voi vi farò assaggiare al mio ritorno qualche fiasco di quello vecchio: siamo intesi?

Caporal Lupini, come più anziano, rispose a nome di tutti:

— Vada tranquillo signor sergente e lasci fare a noi.

Ciceri prese la rampa e scomparve. Allora caporal Lupini ci trattenne col gesto.

[151]

— Amici, ho un’idea — disse.

— Fuori l’idea!

— Non so se siate del mio parere; ma da quando è incominciato questo maledetto campo mobile, non siamo riusciti a mangiare un rancio di carne da cristiani.

— È vero, è vero! — risposero in coro gli altri undici caporali di cucina.

— Coll’aggravante — seguitò Lupini — che se si mangia male, in compenso si lavora il doppio e si sta in piedi dalla sveglia alla.... sveglia del giorno dopo. Dico bene?

— Benone, per Dio!

— Ma tutte le cose debbono avere un limite, e questa sera mi sembra giunto il momento di fare una clamorosa vendetta dei semi digiuni dei giorni scorsi. State bene attenti; il sergente Ciceri non c’è. Come dice il proverbio? «Quando manca la gatta i sorci ballano» non è vero? Dunque eccovi qua la mia pensata. Siamo trentasei tra caporali e soldati di cucina; con cinque soldi a testa si compra un magnifico caratello di vino da 50 litri; verso le undici colla scusa di accendere i fuochi per il caffè e per il rancio, si confeziona in una marmitta a parte un eccellente ragù, una ventina di chili di carne scelta, e si fa una cena squisita.

— Va bene, ma poi? — domandammo tutti curiosamente.

— Poi...: dovete sapere che alla manovra di questa mattina il 3º battaglione ha stanato due volpi che erano una magnificenza. Le volpi sono ladre per istinto; non ci sarebbe dunque nulla di strano che, attirate dall’odore, una mezza dozzina di esse si fossero precipitate a saccheggiare la tenda-ripostiglio che è laggiù, mentre tutti noi eravamo occupati ad accendere i fuochi. Vi torna?...

— Eh! l’idea non è cattiva!...

— È tutta questione di preparar bene il colpo. Alle undici dal colonnello all’ultimo soldato, dormiranno tutti profondamente. Quello è il momento di cenare; a mezzanotte [152] comincieremo la caccia per il campo, sveglieremo l’ufficiale di guardia, la guardia alle armi, tutto il mondo se occorre. Spargeremo qua e là qualche brandello di carne cruda, faremo un bravo buco nella tenda ripostiglio, urleremo come dannati finchè non sarà entrata in tutti la convinzione che effettivamente le volpi hanno rubato la carne....

— Ma.... e i soldati? — domandò Meucci vinto da un ultimo scrupolo — rimarranno senza rancio domattina?

— Come sei ingenuo!... Siccome non c’è tempo nè modo di provvedere altra carne fresca, il colonnello darà l’ordine di consumare per domani una delle due scatole di carne in conserva che i soldati portano nello zaino....

— È vero!...

— È giusto!...

— Il che — continuò Lupini trionfante, farà loro più piacere che il brodo caldo alle tre e mezzo del mattino, no? D’altronde lasciate fare a me e accontentatevi di assecondarmi; a cena, con un bravo barile dinanzi combineremo il nostro piano con tutti i suoi particolari. Frattanto cominciate a tirar fuori i cinque soldi per il vino: io metto subito i miei, ecco qua.

Prese cinque soldi, li mise nel berretto e cominciò a fare il giro; i soldi vi piovvero dentro con un allegro rumore. Meucci, che si era offerto di trovare il vino, li mise in un fazzoletto e scomparve.

— Per ora — conchiuse Lupini — potete rompere le righe, ma acqua in bocca veh! e alle dieci di questa sera riunione intorno ai fornelli. Lo giurate voi?

I trentaquattro rancieri stesero la mano destra e misero la sinistra sul camiciotto all’altezza del cuore esclamando a bassa voce come un branco di congiurati:

— Lo giuriamooo!...

E ognuno si recò al Ticino a lavare le marmitte da campo della propria compagnia.

[153]

***

Alle dieci precise nessuno mancava all’appello.

Caporal Lupini fece la chiamata e impartì tutti gli ordini opportuni: la carne debitamente lardellata e preparata nel padellotto più grande, non aspettava che di essere messa al fuoco. Fu un focherello discreto nell’ultimo fornello di sinistra e si stabilì un oculato servizio di vigilanza, una specie di fermata protetta, per garantirsi da ogni sorpresa per parte dell’ufficiale di guardia. Meucci comparve curvo sotto il peso del suo barile che fu rizzato su due cavalletti improvvisati e il solo Lupini rimase intorno al padellotto in cui il lardo cominciava a canticchiare dolcemente.

Le cinque vedette ogni quarto d’ora si davano regolarmente la muta e venivano a portare le novità a caporal Lupini:

— Niente di nuovo. Gli ufficiali sono sotto le tende, il cantiniere ha spento i lumi.

— Va bene.

— Come va il ragù?

— Benone, è quasi cotto: preparate i coperchi delle gavette.

Alle undici in punto sul campo regnava una calma sovrana sotto l’alta luna vigilante e il ragù era cotto. Caporal Lupini fece le razioni, certe razioni di mezzo chilo l’una e distribuì il sugo nei coperchi delle gavette che si tendevano a lui. Meucci si mise accanto al barile per regolare la distribuzione del vino nelle tazze di latta.

— Che ragù, eh, ragazzi?...

— Stupendo!

— Eccellente!

— Un ragù fuori d’ordinanza!

[154]

— Finalmente si mangia da cristiani!

— Ce lo siamo meritati però!

— Basta che non ci vada per traverso! — arrischiò Guttaperca che aveva ancora qualche rimorso.

Ma Nonmipeschi che era stato l’ultimo a smontar di vedetta, disse coll’accento della maggior sicurezza:

— L’ufficiale di guardia dorme: ho visto che smorzava la candela.

Tutti mangiarono, dopo questa notizia, più liberamente: e a misura che il pezzo di carne diminuiva nelle loro mani, il vino gorgogliava dal barile nelle tazze di latta e scendeva a innaffiar le ugole e a ricreare gli spiriti.

— Questo è il vinetto del curato! — diceva Meucci.

E raccontava di averlo avuto proprio dalla cantina del curato a così basso prezzo perchè aveva saputo intenerire il cuore della Perpetua.

— Era giovane almeno?

— Non lo so; l’ho vista al buio; del resto che importa? il vino è buono e costa poco....

— Già.... Perpetua vecchia.... fa buon brodo.

E tutti a ridere di cuore chè il vino era buono davvero e ristorava lo stomaco.

Caporal Lupini per frenare quell’allegria che minacciava di diventar compromettente, diede le sue istruzioni:

— Anzitutto ognuno laverà il suo coperchio di gavetta e la tazza di latta; Meucci nasconderà il barile vuoto e Guttaperca farà scomparire tutte le tracce del nostro pasto frugale. Poi accenderemo i fuochi e subito dopo, ad un mio cenno, armati di tizzi accesi, di forchettoni di tutto ciò che capiterà alle mani, ci precipiteremo su per la rampa gridando come anime dannate:

— Dài! pigliala! ammazzala!

— Lascia fare a noi!...

— La tenda-ripostiglio sarà chiusa, ma sforacchiata da una parte; qualche pezzo di carne cruda sarà gettata sui solchi al principio della rampa. Io mi incaricherò di svegliare l’ufficiale di guardia.

[155]

— E il povero Ciceri? — chiese ancora Guttaperca che non era del tutto tranquillo.

— Diremo che ha preso il fucile e che è corso dietro alle volpi. Tutti sanno che è un cacciatore terribile.

— Verissimo! Ben trovata per Dio!

Il barile non conteneva più un gocciolo di vino e ai colpi delle nocche suonava fesso. Mentre i cucinieri cominciavano ad accender la legna nei loro fornelli, Meucci se lo mise in ispalla e si perdette per l’alveo del fiume in cerca di un nascondiglio sicuro.

Come i fuochi furono accesi bene, caporal Lupini diede il segnale, impugnando un grosso tizzo ardente.

— A noi!

Me ne ricordo come se fosse ora e non mi posso tener dal ridere a ripensarci. Quella corsa notturna di indemoniati traverso al campo con quelle fiaccole improvvisate, quegli urli, quelle grida, quello sfrenato galoppo di mattacchioni in camiciotto da ranciere, non li dimentico più cami mill’anni.

Io brandivo un forchettone e urlavo peggio degli altri, come un dannato:

— Dagli! dagli! ammazzala!

Figuratevi! tutto il campo si destò di soprassalto a quel casa del diavolo; la guardia corse alle armi, i soldati misero la testa fuori dello tende, spaventati, credendo ad un attacco notturno di selvaggi.

— Che c’è? che c’è?

— Le volpi! le volpi! Pigliale! Dài! Hanno rubato la carne!...

Balzarono fuori tutti soldati e ufficiali colle sciabole e le baionette sguainate, portando via alle compagnie le lanterne da campo, correndo all’impazzata, ridendo, bestemmiando.

Io e Meucci che ci trovavamo in testa, guidavamo la caccia fantastica mezzo soffocati dal ridere, e frattanto caporal Lupini, con una faccia tosta incredibile, faceva [156] il suo bravo rapporto all’ufficiale di guardia e al colonnello che era sopraggiunto a quel putiferio:

— Stavamo accendendo i fuochi per far bollire le marmitte quando sentimmo un po’ di rumore dalla parte della tenda-ripostiglio. Corro a vedere con due soldati e in quel mentre un branco di volpi, saranno state certamente una dozzina, sbucano fuori colla carne in bocca e via per la rampa!...

— Ma il sergente di cucina? — domandò il colonnello un po’ imbronciato per il suo sonno così bruscamente interrotto.

— Era con noi, signor colonnello, e appena vide le volpi afferrò il suo fucile, un pacco di cartucce e corse loro dietro. A quest’ora chissà dov’è!...

Il colonnello che conosceva l’abilità venatoria di Ciceri, si volse all’aiutante maggiore e all’ufficiale di guardia dicendo loro in piemontese:

S’a j’è Ciceri à na pija quaicuna sicurament!...

E concluse:

— Il rancio non si può più fare?

— È impossibile, signor colonnello.

— Allora, capitano, dia ordine che domattina la truppa consumi una razione di carne in conserva!

E se ne ritornò sotto la tenda, mentre i trentasei rancieri dopo aver sguinzagliato gli altri alla caccia delle volpi ipotetiche, si disperdevano qua e là per il campo, evitando di incontrarsi per non ridersi sul muso.

E la tromba di guardia suonò per la seconda volta il silenzio.

Era l’una antimeridiana. Il sergente Ciceri rientrava in quel momento al campo, ma in quale stato, mio Dio! Se non aveva preso la volpe, aveva preso certamente una famosa.... pelliccia!

[157]

L’UOMO VOLANTE DALLE MEMORIE DI UN VOLONTARIO. 6v6k5p

················

Il secondo segnale del silenzio era suonato da più di un’ora senza che io avessi potuto chiudere un occhio e trovare una posizione comoda in quel letto di Procuste che è il tavolaccio di una prigione. Ogni rumore nel quartiere era cessato, tutti dormivano: la vita pareva sospesa in quel silenzio.

— Avessi almeno un compagno con cui scambiar quattro parole! — pensavo.

La solitudine è sempre una dura cosa; è durissima poi a diciotto anni, quando il cuore è naturalmente espansivo e l’anima non peranco avvezza a bastare a sè stessa.

Ad un tratto, quasi il cielo avesse voluto esaudire il mio desiderio, alcuni i si udirono nel corridoio, un bagliore di luce penetrò nella prigione per il piccolo finestrino. La chiave girò nella toppa, il chiavistello stridette negli anelli rugginosi, e la porta si aprì dando il o al nuovo venuto.

Alla luce rossiccia del Marzocchi che un soldato di [158] guardia teneva in mano, riconobbi il mio ex-istruttore, il caporal maggiore Saporetti. Balzai dal tavolaccio, gli corsi incontro a mano tesa, il volto atteggiato alla più grande delle meraviglie.

— Come? — esclamai — tu quoque?

E riflettendo che egli non era obbligato a capire il latino, volgarizzai subito la domanda:

— Anche tu?...

Saporetti mi rispose con un cenno del capo: era ancora in tenuta d’uscita, pallidissimo, lo sguardo smarrito, le mani che gli tremavano nel consegnare al soldato il cinturino e il kepy.

Lo liberai dalla coperta che distesi sul tavolino vicino alla mia, mentre il caporal di guardia ne chiudeva dentro a due mandate augurandoci la buona notte.

Rimanemmo in un buio perfetto e mentre mi stendevo sul tavolaccio poggiando il capo sul cappotto ripiegato, non seppi resistere alla curiosità e gli domandai ancora:

— Ma che diamine hai fatto?

— Ho tardato alla ritirata, sono rientrato in quartiere adesso.

— Tu??!

— Già!

— Qualche avventura amorosa eh? fortunato briccone?!...

Non mi rispose: sentii che si ravvoltolava nella coperta e mi volgeva le spalle, poi dopo qualche minuto mi disse con una voce che non mi parve la sua:

— Buona notte, Lamberti!

— Buona notte!

Mi voltai anch’io sul fianco sinistro e cominciai e pensare.

Saporetti in prigione? Se non lo avessi avuto lì sotto gli occhi, non ci avrei creduto. Saporetti era la perla dei caporali maggiori del Reggimento, uno di quei graduati come se ne trovano pochi; in venticinque mesi di servizio non un giorno di consegna; attento, energico, rispettoso, [159] autorevole, superiori ed inferiori lo stimavano tutti e gli volevano un gran bene, benchè fosse di carattere assai riservato e fuggisse tutte le occasioni di trovarsi in compagnia. Noi volontari poi, che eravamo stati suoi allievi, lo amavamo e lo rispettavamo come un fratello maggiore, subivamo l’ascendente del suo carattere serio e un tantino misterioso, della sua equità inflessibile, della bontà del suo cuore. Benchè egli non si fosse confidato con nessuno, si buccinava che volesse contrarre la firma e ar sergente; difatti usciva di rado, lo si vedeva sovente in camerata o in cortile con dei libri in mano leggendo o studiando. Nessuno gli conosceva un’innamorata vicina o lontana, non scriveva lettere, non ne riceveva mai.

Come dunque spiegare la sua prima mancanza? Che cosa poteva aver egli fatto fuori di quartiere fino a quell’ora? Perchè era rientrato così agitato, così sconvolto, con lo sguardo smarrito e le mani tremanti?...

Quella angosciosa emozione non poteva ragionevolmente attribuirsi al dolore della prima punizione, poichè la mancanza non era grave e il colonnello che gli voleva bene, non gli avrebbe inflitto più di tre giorni di prigione semplice. O allora?...

Tra questi pensieri e con questa curiosità nell’anima mi addormentai.

***

Un furioso dimenar di gambe sul tavolaccio, un rantolo selvaggio come di bestia soffocata, mi destarono di soprassalto. E subito sentii nel ginocchio un dolore vivo: uno dei piedi di Saporetti mi aveva colpito con forza.

— Saporetti, per Dio! diventi matto? — gridai spaventato liberandomi dalla coperta.

Il rantolo continuò più soffocato, più straziante: poi [160] sentii le membra dell’infelice dibattersi disperatamente come se fosse in preda ad un insulto epilettico.

Ebbi paura: balzai a sedere sul tavolaccio, cercai sotto il traversino di legno un moccolo di candela che mi serviva per leggere nelle ore di insonnia, e l’accesi.

Alla livida luce del fiammifero ebbi una di quelle raccapriccianti visioni che fanno drizzare i capelli sulla testa.

Saporetti tentava di strangolarsi colla cinghia dei pantaloni; se l’era messa intorno al collo a guisa di nodo scorsoio e tirava rabbiosamente con tutte e due le mani, già paonazzo nel volto, la bocca orribilmente spalancata, gli occhi schizzanti dalle orbite.

Buttai il fiammifero e gli fui sopra. Accadde nel buio una tragica lotta che mi parve durasse un secolo. L’infelice voleva morire a tutti i costi e tirava con furore il pezzo di cinghia che gli era rimasta tra le mani; io riuscii ad afferrare quelle sue mani callose che parevano d’acciaio, a strappargli violentemente la cinghia tenendolo sotto di me colle ginocchia sul petto.

— Lasciami morire! lasciami morire! — supplicava egli colla voce strozzata.

E mentre io, padrone omai della cinghia, spalancavo con un pugno il finestrino e gli sbottonavo il cappotto e la camicia perchè respirasse con maggior libertà, egli ruppe in un pianto disperato supplicandomi ancora tra i singhiozzi.

— Lasciami morire, per carità, lasciami morire!...

Piangeva, dunque era salvo. Che fare? Chiamare il caporal di guardia perchè mi portasse un lume, perchè mi aiutasse a persuader l’infelice di star tranquillo e calmarsi? A quale scopo? L’indomani tutto il quartiere avrebbe saputo il tentativo di suicidio, si sarebbero volute scoprirne le cagioni, ne sarebbero derivate al povero Saporetti un’infinità di seccature e di fastidii.

Ma.... e se avesse ritentato?

A buon conto avevo gettato la cinghia dal finestrino e [161] mi proponevo di vegliare tutta la notte. Accesi dunque il mio pezzetto di candela e mi avvicinai a lui, gli presi le mani tra le mie.

Saporetti ora, spossato dallo sforzo e dalla lotta, giaceva supino sul tavolaccio le braccia distese, il collo gonfio, il volto livido, l’occhio dilatato. Respirava a fatica. Fortunatamente dal finestrino spalancato penetrava nella piccola prigione un’ondata di aria freschissima che allargava i polmoni: a poco a poco la sua respirazione si fece più regolare, le guance, le labbra ripresero il loro colorito un po’ , gli occhi, la cui fissità mi aveva spaventato, si riempirono di lacrime.

E le lacrime cominciarono a scendergli per le gote, silenziosamente, come due rivoletti che pareva non dovessero disseccarsi più mai; scendevano, scendevano senza che un singhiozzo sollevasse il suo petto, scendevano continuamente, disperatamente, senza posa. Quel dolore muto straziava l’anima.

Io lo lasciai piangere senza dir parola: quel pianto rappresentava senza dubbio la crisi benefica dopo la quale i suoi nervi pacificati si sarebbero distesi nel sonno. E intanto pensavo, le membra corse da un brivido d’orrore: mio Dio! E se non mi fossi svegliato? e se mi fossi svegliato troppo tardi? Avrei giaciuto tutta la notte vicino ad un cadavere!... Che cosa avrebbero detto l’indomani? E se avessero accusato me della morte? Fremevo a quell’idea, pur nondimeno chi avrebbe potuto provare che non fossi io l’assassino? Sudavo freddo.

Ad un tratto mi sentii stringer la mano e udii la voce fioca di Saporetti, una voce d’oltre tomba, che mi diceva:

— Perchè.... perchè non mi hai lasciato morire?...

— Morire! Povero Saporetti! Si muore forse alla tua età?...

— Si muore a tutte le età quando si è infelici, quando si è maledetti....

— Ma, disgraziato, non hai dunque un padre, una madre? Non hai nessuno cui la tua esistenza sia cara, [162] nessuno che la tua morte avrebbe gittato nella disperazione?

Saporetti si mise a sedere sul tavolaccio e appoggiò la schiena al muro; asciugandosi le lacrime disse a bassa voce come parlando a se stesso:

«Nessuno! Sono un povero diavolo io.... chi vuoi che si curi di me? chi vuoi che pianga per me? Un padre? una madre? Certo li ho avuti, ma non ne conservo che una rimembranza lontana e confusa. Avevo sei anni quando mi trovai solo, sull’imbrunire, in mezzo ad una strada. Fu caso? fu colpa? Chi lo sa?... ò di là il pagliaccio di una compagnia di saltimbanchi, mi regalò una ciambella, mi prese per la mano e mi portò via.

«Da quel giorno invece che carezze non ebbi che frustate e fui tirato su a calci e a pezzi di pan nero; da quel giorno e fino al momento di venire sotto le armi feci il saltimbanco. Vedi? non ho più un membro che non sia slogato, un osso che non sia rotto. Oh! è una storia allegra la mia, caro Lamberti! Tutto quello che era fattibile io l’ho fatto: il clown, il pagliaccio, il ginnasta, l’uomo-serpente, l’uomo-salamandra, l’uomo-volante.

«E ognuno di questi mestieri mi è costato qualche cosa: a Barcellona caddi da cavallo e mi lussai una spalla, a Lione per fare il triplo salto mortale mi rovinai un ginocchio, a Berlino poco mancò non mi rompessi il collo nel salto del plongeur, e finalmente a Trieste, saranno due anni, facevo l’uomo volante; una sera dopo i soliti esercizii sui due trapezi mi buttai nella rete: il salto fu così violento che la rete mi sbalzò fuori e mi ruppi due costole contro il parapetto del circo, hai capito?»

Io stavo ad ascoltarlo a bocca aperta: nella semioscurità della prigione egli parlava ora con una voce cupa che mi faceva raccapricciare, con un’ironia tagliente, con un disperato sarcasmo che mi facevano paura.

«Dopo l’ultima disgrazia che mi inchiodò per sessantacinque giorni in un letto d’ospedale, il Direttore della [163] Compagnia vedendo che di me non poteva omai far più nulla, mi mise in mano il provento di una colletta fatta tra gli artisti e mi mandò con Dio.

«Mio primo pensiero fa quello di tornare a Torino dove era un tempo la mia famiglia: mi presentai da uno zio che tien bottega di pizzicheria in via S. Massimo e fui duramente respinto:

« — Chi siete? Chi volete?

« — Son vostro nipote, Giorgio Saporetti, il figlio di Vincenzo vostro fratello.

« — Mio fratello è morto e quanto a Giorgio credo sia morto anche lui all’età di sei anni....

« — Vi dico che Giorgio son io, che a sei anni appunto fui preso dai saltimbanchi....

« — Animo, meno chiacchere: a me non si raccontan frottole: ho altro da fare io che perder tempo con uno straccione come voi....

« — Ditemi almeno dove sta mia madre, vostra sorella.

« — Non lo so: è partita da Torino che saranno cinque o sei anni....

«E mi sbattè l’uscio sul muso.

«Tutte le ricerche per trovare mia madre riuscirono vane; mi rivolsi senza frutto al Municipio ed agli antichi vicini di casa; soltanto il vecchio portinaio mi disse che cinque anni prima mio padre era stato assassinato in borgo Vanchiglia e l’assassino rimase ignoto come ignota fu la cagione del misfatto. Dopo la morte del babbo la mamma e mia sorella lasciarono la casa e nessuno ne aveva avuto più notizie.»

— E allora? — domandai io vivamente interessato.

« — Allora venni via da Torino e mi presentai al Distretto colla mia classe. Ci venivo volentieri sotto le armi, non avevo una casa, non un parente che si interessasse di me e mi volesse bene non avevo nemmeno un mestiere, io che ne avevo fatti tanti e pensavo che, dopo tutto, avrei potuto farmi nell’Esercito il mio piccolo posticino.

[164]

«Al Distretto non mi volevano ricevere perchè il mio nome non figurava nelle liste; scrissero però al Municipio di Torino e di laggiù risposero che Giorgio Saporetti era morto, anzi mandarono anche una copia dell’atto di morte. Capisci? ero morto io.... Qualcuno doveva aver avuto un grande interesse a farmi scomparire dalla scena del mondo!... Basta: ci volle del bello e del buono per far constatare la mia identità: finalmente fui incorporato in questo Reggimento dove vivevo da quasi due anni se non felice almeno tranquillo e un po’ riconciliato colla società».

— E allora perchè volevi morire?

«Aspetta, non ho finito; l’orribile cosa viene ora».

Una nuova e dolorosa crisi di pianto lo interruppe.

Aspettai che si calmasse, in silenzio.

***

— Una peggiore sciagura — continuò — una peggior vergogna mi erano riserbate. Quello che sono per dirti esige però da te la promessa di una segretezza assoluta.

Gli serrai fortemente la mano.

— Puoi fidarti di un amico sincero, — dissi.

«Ascolta dunque e giudica tu se non avevo ragione di voler morire.

«Saranno cinque o sei giorni, mi trovavo a eggio nel giardino di Piazza Vittorio. C’era molta gente; operai, soldati, balie, cameriere, donnine allegre, tutto il pubblico solito di Piazza Vittorio insomma. Ad un tratto mi si accostò una ragazza in capelli, piuttosto belloccia, bionda, con un’aria un po’ sfrontata: e nel armi accanto mi guardò arditamente negli occhi e mi disse sottovoce in dialetto piemontese:

« — Ciao bel gougnin!

«Lì per lì non ci feci caso e tirai diritto; evidentemente [165] era una di quelle povere diavole che vivono alla giornata sui capricci erotici di questo e di quello; però prima di tornare in quartiere la incontrai ancora tre volte e tre volte ella mi sorrise invitandomi collo sguardo. Quella fisonomia non mi riusciva nuova: dove diamine l’avevo altra volta veduta?

«Tornando in quartiere pensavo a tutti i tipi di ragazze che avevo incontrato qua e là nella mia vita vagabonda, ma nessuna mi rammentava i lineamenti di quella lì, che nonpertanto avrei giurato di aver conosciuto in altri tempi. Ci pensai tutta la notte inutilmente e il giorno dopo tornai al giardino di piazza Vittorio. La vidi, ma non era sola: discorreva in un angolo con un giovanotto imberbe e malvestito, un operaio forse, e poco dopo si allontanarono insieme lungo la via Buonarroti. Li seguii alla lontana per mera curiosità, non senza un secreto dispetto però, e li vidi entrare in un portoncino basso che portava il numero 14. Aspettai un pezzo e, come la coppia non ricompariva, me ne tornai in quartiere sopra pensieri. Omai l’immagine di quella disgraziata si era impadronita del mio cervello e mi compariva dinanzi ad ogni momento. Sorprendendomi a pensarci mi indispettivo; nella mia povera vita di funambolo vagabondo, ero stato troppo sovente a contatto del vizio, perchè ogni forma di esso non dovesse suscitare nell’animo mio il più profondo disgusto. Ma che cosa legava dunque il mio pensiero all’immagine di quella povera creatura abbietta?

«Trascorsero tre giorni durante i quali non mi fu più possibile vederla; pensavo con un’inquietudine di cui non mi sapevo spiegar la causa, che ella fosse malata e ne soffrivo. Anche, la sua assenza, eccitava in me il desiderio malsano di possederla.

«Questa sera, verso le otto, l’ho ritrovata pei viali del giardino. Era sola e mi fece collo sguardo e colla mano un cenno di invito. Io la seguii.

«Non saprò mai descrivere che cosa abbia provato nel [166] breve tragitto dal giardino alla via Buonarroti. Sul portoncino ebbi l’ispirazione di tornare indietro; mi pareva che qualcheduno mi spingesse violentemente sulla strada; il ribrezzo mi saliva alla gola come un’ondata di nausea: tuttavia entrai e la seguii su per la lurida scaletta.

«Era una delle solite volgarissime stanze d’affitto a una lira per notte, dove quelle sciagurate esercitano il loro triste mestiere; una camera squallida, sporca, in cui il vizio trasudava dai mobili e dalle pareti; il letto era basso, duro, con una gran coperta rossa piena di macchie.

«Arrossii di me stesso ma mi mancò la forza di fuggire.

«Nella sua impudicizia serena e abituale, ella si spogliò in un attimo, decisa a spicciarsi, poichè anche per quelle sciagurate il tempo è moneta, e mi si avvicinò sorridendo del suo solito sorriso.

«Io la guardai a lungo. Era assai bella: il collo delicato e bianco pareva uno stelo, le spalle d’avorio scendevano con una curva molle piena di grazia, le braccia ed il seno erano squisitamente modellati.

«Dimenticai tutto, vinsi il disgusto.... e cedetti.

***

«Suonava la ritirata quando mi accingevo ad andarmene. Ella era stata assai gentile con me, mi aveva dimostrato una sincera simpatia, aveva saputo dominare la sua impazienza; inoltre aveva avuto l’intelligenza di capire che io non amavo i discorsi inutili e me li aveva risparmiati.

«Mentre io deponevo la mercede sul tavolino da notte, ella girandosi sulla testa lo scialle e disponendosi ad uscire per proseguire la notturna caccia all’uomo, mi disse:

« — Tornerai cit?

Risposi evasivamente.

[167]

«Eccoti il mio biglietto di visita per ogni caso.

E mi mise in mano un piccolo cartoncino a stampa su cui gittai uno sguardo distratto. Il cartoncino in piccoli caratteri portava scritto un nome che mi colmò di meraviglia: «Maria Saporetti».

«Rimasi perplesso con un dubbio angoscioso nell’animo, con la paura che il dubbio diventasse da un momento all’altro un’orribile realtà.

« — Maria Saporetti? di Torino?

« — No, di Cuorgnè.

« — Di Cuorgnè? tuo padre come si chiamava?

« — Vincenzo, perchè?

« — E tua madre?

« — Giovanna: ma perchè mi fai queste domande? Sei il delegato tu?

«Io sudavo freddo, rifiutavo di credere; domandai ancora:

« — Non hai uno zio che si chiama Pietro?

« — Sì.

« — Che tien bottega di pizzicagnolo in Via S. Massimo?

« — Sì, sì.

« — E tuo padre non faceva il calzolaio a Torino?

« — Appunto!...

« — Non fu ucciso cinque anni fa in borgo Vanchiglia?

« — Purtroppo! Ma tu chi sei?

« — Rispondi ancora. Non avevi un fratellino che si chiamava Giorgio?

« — Sì, — disse Maria guardandomi trasognata.

« — Che ne è stato? È vivo? È morto?

« — Hanno detto che è morto: io non me ne ricordo, ero tanto piccina!...

« — Un’altra domanda. Di tua madre che ne è stato?

« — Non lo so: dopo la morte del babbo ha sposato un mercante d’ombrelli ed io sono fuggita di casa per non star col patrigno; dopo — aggiunse con una grande indifferenza — non ne ho saputo più nulla. C’è chi dice che sia andata in America....

[168]

« — Ascolta, le dissi fuori di me, stringendole i polsi, fissandola intensamente negli occhi; — da quanto tempo fai questo mestiere?

« — Perchè vuoi saperlo? Chi sei tu?

« — Rispondi, per l’anima di tuo padre!

« — Da quattro anni.

« — Chi è stato il tuo primo amante?

« — Un sergente di cavalleria, — balbettò spaventata.

«Ricaddi su quel letto d’infamia come fulminato; tutto il sangue mi era affluito al cervello, vedevo tutto rosso, sentivo un sinistro ronzio nelle orecchie, il rossore della vergogna mi bruciava le guancie. E mi nascosi il volto tra le mani scoppiando in singhiozzi.

« — Ma che hai? Chi sei dunque? Chi sei? — gridò Maria spaventata avvicinandosi alla porta, pronta a chiamar gente o a fuggire.

« — Chi sono? Chi sono? Ah, disgraziata!

«Ma un lampo attraversò il mio cervello; perchè rivelarmi? Mi affibbiai il cinturino, mi gittai in capo il kepy e fuggii come un pazzo sentendo di non poter padroneggiare il desiderio, il bisogno di baciarla e di strangolarla. Mia sorella! mia sorella! Quella disgraziata, quella prostituta, quella donna che si vendeva al primo venuto, che si era venduta a me, era mia sorella!...

«Dove andai, che cosa feci io non lo so: fuggivo come un pazzo per le vie di Roma e mi pareva che tutti sapessero la miseria mia, che tutti leggessero il mio nome a caratteri di fuoco in una gran macchia di fango. Vedi Lamberti, io sono un povero figliuolo senza istruzione, senza coltura, cresciuto in un ambiente tutt’altro che virtuoso; pure ho anch’io delle idee sull’onore, ho anch’io un onore personale, intimo, che ho sempre tenuto alto in tutte le circostanze e quest’ultimo colpo che me lo rapisce è troppo forte, è troppo atroce. Ma che ho dunque fatto perchè la maledizione del cielo mi perseguiti così? Ritrovare una sorella amata, desiderata, vagheggiata nei [169] sogni della fantasia, ritrovarla in una casa infame, l’aria sfrontata, le guancie coperte di belletto!!... Ritrovarla dopo essere stato il suo amante di un’ora, dopo averle pagato il piacere di un’ora!... Ma di’ tu dunque, dimmi, non avevo ragione di voler morire?»

E il disgraziato scoppiò per la terza volta in uno scoppio irrefrenabile di singhiozzi; tra i singhiozzi si faceva strada ostinatamente una domanda angosciosa:

— Perchè.... perchè.... non mi hai lasciato morire?

Io tacevo, annichilito.

[171]

IRENE 4b1gs

Andò così.

Verso le dieci di sera, mentre leggevo con grande interesse, sdraiato sulla poltrona a dondolo, un libro del Taine, la porta a vetri che mette sul ballatoio si spalancò e Alfredo entrò sorridendo del suo sorriso infantile, tenendo a braccetto una donna.

Io mi alzai meravigliato.

— Madamigella Irene! — disse Alfredo facendo la presentazione con aria comicamente cerimoniosa. E accennandomi a lei, soggiunse mentre io mi inchinavo:

— Il tenente Roberto, mio carissimo amico, e per conseguenza tuo.

— Già.... gli amici dei nostri amici.... Ma si accomodi prego....

E chiusi il libro mentre Alfredo toltasi la sciabola frugava, da padrone, nella dispensa.

Madamigella Irene si accomodò vicino a me; era una ragazza sulla ventina, non bellissima, ma piacente per una [172] certa dolcezza che aveva nello sguardo e nel sorriso. Vestiva poveramente ma con una tal qual pretesa di eleganza; nell’accento si accusava lombarda.

— Eh? che belle figliuole so scovare io? — diceva Alfredo distendendo sul tavolo, che aveva sgomberato di tutti i libri, la tovaglia e i tovaglioli. — In compenso tu ci darai da cena, vero? Lascia fare, me ne incarico io; nella tua dispensa, a cercar bene, c’è da trovar sempre qualche cosa. Vado in cucina ad accendere il fuoco e ti lascio in buona compagnia.

— Fai! fai!... — risposi io tra contrariato e lieto di quella diversione al metodismo delle mie abitudini.

— Siamo venuti a disturbarlo, non è vero? — cominciò la ragazza un po’ imbarazzata....

— Ma niente, carina!... Anzi! Figurati, leggevo, e finito il capitolo, mi disponevo ad andarmene a letto come un provinciale qualunque. Perchè non ti togli il cappello?

Notai che il tono confidenziale con cui la trattavo, le fece corrugare impercettibilmente le sopraciglia; però i suoi sguardi, che avevano avuto un fuggevolissimo lampo di sdegno, ripresero subito quella tristezza rassegnata che dava alla sua fisonomia, un po’ irregolare, una specie di fascino doloroso.

Ella si alzò, si tolse lentamente il cappello mentre io la guardavo. Colle braccia sollevate dietro la nuca, la linea del suo corpo appariva perfetta ed elegante, la vita sottile come un giunco, il seno e le anche, pronunciati, le davano l’aspetto di una di quelle anfore greche od etrusche di inimitabile purezza. Poi, come ebbe deposto il cappello sul letto, cominciò a togliersi silenziosamente i guanti (certi guanti di un giallo assai dubbio, ad un solo bottone) scoprendo i polsi rotondi e due manine belle forse in origine, ma sciupacchiate, col pollice e l’indice anneriti dalle sforacchiature dell’ago.

Faceva tutto ciò macchinalmente, lasciando errare sulle labbra pallide un sorriso vago, guardandosi dattorno con [173] un’indifferenza grande, come se nulla potesse omai, nella vita, interessarla più.

Io mi avvicinai, le presi una mano che ella mi abbandonò senza resistenza e l’accostai alla lampada.

— Facevi la modista?

— No, la sarta.

— Dove?

— A Milano.

— E.... ora?...

— Ora....

Un improvviso rossore le aveva coperto le guancie, le aveva imporporato il collo e le orecchie. Mi fissò in volto quelle sue nere pupille così dolci e così tristi e le abbassò subito, concludendo con un sorriso forzato:

— Ora.... viaggio!

— Ah!...

Tacemmo entrambi: io pensai di essermi imbattuto in una di quelle che hanno l’umore sentimentale e non ci feci caso. Accesi una sigaretta e le offersi l’astuccio.

— Fumi?

— Grazie, no; non ho ancora imparato.

La tristezza, una tristezza invincibile, oltrechè nello sguardo e nel sorriso, era anche nella voce; una strana voce di contralto in cui le note basse parevano fatte di singhiozzi e quelle acute di lacrime.

— Ed è molto tempo che.... viaggi?

— Tre settimane; son fuggita di casa il 20 di aprile.

— Coll’amante, naturalmente....

— No, sola.

— Perchè?

— Non ne parliamo, è una storia lunga.... Vuole che cambiamo discorso, eh?

In quel momento Alfredo entrava trionfante con un piatto in mano.

— A tavola! a tavola! Vi ho fatto una omelette aux truffes da far risuscitare un intero camposanto: sentite che odore!...

[174]

Dal piatto fumante il possente odore dei tartufi si levava solleticando acutamente le nari.

— Bravo Alfredo, per Dio! Meriti un posto nelle cucine reali — dissi attaccando vivamente la frittata tentatrice.

— Hai appetito, piccina? — domandò Alfredo ad Irene stringendole una delle magre guancie tra l’indice e il medio.

Nello sguardo della fanciulla, sorpresi un fugacissimo lampo di cupidigia subito velato dall’abbassarsi delle palpebre.

— Ha fame! — pensai mettendole nel piatto una fetta enorme di frittata....

***

Dopo la seconda bottiglia di Barbera, Alfredo si addormentò sulla seggiola, la testa tra le mani, i gomiti poggiati alla tavola, la pipa tra i denti.

Mezzanotte suonava all’orologio della piazza. Nella mia piccola cameretta ci si stava d’incanto; nell’aria era quella nebbiolina mista di fumo e di vapore, greve di odori gastronomici, traverso alla quale, nel lavorìo benefico della digestione, uomini e cose si intravvedono come tra le nebbie del sogno senza contorni precisi e senza proporzioni.

Sdraiato sulla poltrona, poggiato un braccio sulle ginocchia di Irene, io traevo grandi boccate di fumo dalla sigaretta e il mio pensiero seguiva le spire bianchiccie che si elevavano lentamente, perdendosi in circoli larghi e sottili contro il soffitto e nei cortinaggi della finestra.

Eravamo stati allegri a quella cena improvvisata: i tartufi, il barbera generoso, il buon umore di Alfredo ci avevano conquistato.

Anche Irene aveva lo sguardo brillante, le guancie colorite, il sorriso meno triste; il benessere fisico emanante [175] dallo stomaco rifocillato, cancellava poco a poco da quel volto emaciato le tracce dei patimenti recenti, ridonava alla sua pelle di venti anni, morbida e bianca, quella freschezza vellutata di pesca matura che invita dolcemente a mordere ed a baciare. Veduta così, alla luce discreta della lampada, colla massa dei capelli bruni pettinati alla greca che le ombreggiava la fronte di un cespuglio di riccioli ribelli, colla chiostra candidissima dei denti che si mostrava tra l’arco roseo delle labbra semichiuse, ella mi parve bella e desiderabile.

— Ti chiami Irene?

— Sì.

— Nome di guerra, certo!...

— No, è il mio nome.

— Ah! — dissi con un tono di incredulità bonaria che dovette ferirla profondamente.

— Non ci crede?

— Sì, ci credo, e poi....

— Tanto fa un nome come un altro, — concluse ella col suo sorriso triste: — qui non mi conosce nessuno.

— Quanti anni hai?

— Diciotto.

— Solamente?

— Dimostro di più, non è vero? Gli è che la vita non è sempre allegra, signore.

— Hai dunque sofferto molto?

— Molto!

Subitamente il suo sguardo e tutto il volto ripresero quell’espressione di desolata mestizia che mi aveva colpito prima di cena.

— Vuoi raccontarmi qualche cosa?

— No, a che serve?

— Hai ragione: stai con lui questa notte? — e indicai Alfredo.

— Non lo so: egli mi ha condotta qui.... preferirei rimaner qui.

[176]

— Davvero? e perchè?

— Quel signore è troppo allegro....

Alfredo si era messo a russare della grossa: ora aveva incrociato le braccia sulla tavola e volgeva verso di noi il suo volto di paggio biondo su cui la tenue barbetta metteva dei riflessi di oro pallido.

Io lo destai dolcemente:

— Alfredo! Alfredo!...

— Hum! — grugnì egli, senza muoversi.

— Svegliati, è tardi; domattina c’è piazza d’armi alle cinque.

Alfredo si levò da sedere cogli occhi chiusi come un sonnambulo, immemore di tutto; e sempre ad occhi chiusi cinse la sciabola e si calcò in testa il berretto con una manata.

— Addio! — disse avvicinandosi alla porta, un po’ barcollante.

— Addio. E l’Irene?

— Ho troppo sonno, te la lascio; verrò a riprendermela domani.

Infilò la porta ed uscì.

Quando ebbi chiuso l’uscio e rientrai in camera Irene era in piedi e teneva in mano il cappello e i guanti.

— Vuole che me ne vada? mi domandò umilmente.

La pendola del caminetto segnava l’una dopo la mezzanotte e fuori pioveva.

— Rimani! — le dissi.

***

Veramente la sua voce di contralto sembrava fatta di singhiozzi e di lacrime.

Nel buio, fumando la mia sigaretta, ascoltavo pensoso quella voce dolente che mi narrava una storia tanto diversa [177] da quella di tutte le donne cadute. E come ella, conscia per dolorosa esperienza della repulsione fisica che ispirano all’uomo certi corpi di femmina dopo il piacere goduto, si teneva lontana, all’altra estremità del letto grandissimo, la sua voce pareva giungermi affievolita dalla distanza, più desolata che mai, quasi tragica a volte.

Diceva ella col suo spiccato accento lombardo, con una grande precisione di parole e di idee:

— No, la vita non è sempre, nè per tutti, allegra; per certuni anzi non è che un continuo succedersi di dolori. A volte la sventura si abbatte sopra una famiglia e la perseguita nel suo capo ed in tutti i suoi membri per anni ed anni e per intere generazioni. Così è accaduto a me. Facevo la sarta per necessità, ma non ero di condizione volgare ed ho il diploma di maestra. Mio padre era redattore della Perseveranza, mia madre era figlia di un impiegato di prefettura. Eravamo tre sorelle, differentissime di indole, di tendenze, di abitudini e nostra madre (mi vergogno a confessarlo) non era tale da guidarci sulla via della virtù. Ella aveva un amante ricco, noi tutte lo sapevamo e il babbo che lo sospettava e che voleva averne la certezza assoluta, era di un umore chiuso e intrattabile. La casa era un inferno: molte volte dovemmo assistere a delle scene di orribile cinismo da parte della mamma, di perdonabile brutalità da parte del babbo. La sua professione di giornalista tenendolo occupato buona parte della notte, l’amante della mamma veniva di sera facendosi precedere da un domestico carico di ogni ben di Dio. Allora cominciava l’orgia alla quale anche noi dovevamo partecipare; si mangiava, si beveva e la mamma e il suo ganzo si divertivano a vederci brille e si baciavano in faccia a noi senza vergogna, senza vergogna si chiudevano nella camera nuziale, mentre noi guardavamo dal buco della serratura colla malsana curiosità delle ragazzine maliziose e viziate. Oh! la nostra innocenza infantile non è durata molto tempo ed io a dodici anni sapevo già [178] che cosa pensare della vita!... Capivo tutto e soffrivo, ma non osavo aprir bocca per paura della mamma e dell’Ambrosina che teneva le sue parti ed era per conseguenza la sua beniamina. La tresca vergognosa durò a lungo senza che il babbo se ne accorgesse, ma finalmente una sera egli capitò in casa all’improvviso, vide sulla tavola i resti dell’orgia, capì a volo, sfondò con un calcio la porta, e si precipitò nella stanza coniugale col revolver in pugno. Ah! cami mill’anni non dimenticherò quella scena!... Dalla porta semiaperta vedemmo la mamma e il ganzo seminudi, in ginocchio dinanzi a mio padre che li teneva ambedue immobili e terrorizzati sotto la canna del suo revolver. Chiudemmo gli occhi aspettando la tragedia. Ma che cosa ò nel cervello di mio padre in quel momento? Chi potrebbe dirlo? Sollevò l’uomo ghermendolo al collo colla mano sinistra, lo trascinò alla porta di casa, lo spinse fuori, così seminudo, con un calcio nella schiena, come un cane lebbroso. Poi tornò in camera, pallido d’ira, gli occhi iniettati di sangue, afferrò la mamma pei capelli, trascinò anche lei alla porta coprendola di vituperii, la spinse fuori seminuda, a calci, come l’amante:

— Fuori di casa mia, sgualdrina! Fuori, prostituta!...

Chiuse la porta di casa a doppia mandata, mise il catenaccio e volgendosi a noi con un piglio terribile, additandoci la nostra stanza colla mano imperiosamente tesa:

— E voialtre a letto subito! Marche!

E cadde sul divano della saletta da pranzo la testa tra le mani, a piangere come un fanciullo!...

Da quella notte e mentre il processo di separazione faceva il suo corso, il povero babbo prostrato dal colpo terribile cadde in una malattia di languore che lo obbligò a lasciare gli uffici della Perseveranza. Fu allora che mia sorella maggiore Ambrosina entrò in qualità di cameriera ai servizii di un vecchio e ricco banchiere e che io mi collocai in un negozio a far la sarta. Jole, la più piccola, rimase in casa ad accudire il babbo e a badare alle faccende domestiche.

[179]

Così ò un anno; in quel frattempo avvenne la separazione legale tra il babbo e la mamma. Il povero babbo, invecchiato di vent’anni in quella notte, non lavorava quasi più, scriveva appena un articolo alla settimana, incurante della miseria in cui eravamo tutti piombati, inguaribilmente ferito al cuore dal tradimento infame della mamma. Tuttavia tra i suoi scarsi guadagni, i miei, e i pochi soldi che ci dava l’Ambrosina, si tirava ancora avanti.

Ma la sventura non era ancora stanca di perseguitarci.

Un giorno il vecchio banchiere sorprese l’Ambrosina colle mani nello scrigno, colle tasche piene di biglietti di banca trafugati. Senz’altro chiuse la ladra a chiave in uno stanzino, la mise sotto buona guardia e corse a cercarmi. Già fin da quando l’Ambrosina era entrata in casa sua, il vecchio banchiere mi aveva messo gli occhi addosso e non di rado mi seguiva alla lontana quando mi recavo al negozio o tornavo a casa.

Quella sera mi fermò risolutamente e mi raccontò senza ambagi la disonesta azione commessa da mia sorella e la sua ferma intenzione di consegnarla nelle mani della giustizia, a meno che.... mi capisce signore?

Anch’io capii di volo l’orribile proposta e il primo impulso fu quello di schiaffeggiare il vecchio libertino in mezzo alla via: credo anzi di avergli in sulle prime risposto assai sdegnosamente; ma non tardai a comprendere che ogni resistenza era inutile perchè egli aveva in pugno l’onore di tutta la famiglia e quel che era peggio la vita di mio padre che non avrebbe certamente sopravvissuto a quest’ultimo colpo.

Domandai che mi lasciasse la notte intera per riflettere, dissi che avrei risposto all’indomani andando al negozio.

Egli accondiscese, sicuro della vittoria.

Appunto quella sera trovai il babbo più accasciato, più malandato del solito; egli si doleva sopratutto della sua incapacità al lavoro quasichè la sventura coniugale, oltrechè nell’onore, lo avesse colpito nel cervello inaridendogli [180] ogni sorgente di ispirazione; e sempre egli portava quelle sue mani scarne alla nuca, come ad impedir la fuga delle idee, la miseranda dispersione di tutta la materia cerebrale altra volta così rigogliosa e feconda.

Alla notte non chiusi occhio: dovevo prendere una risoluzione che avrebbe deciso della vita di mio padre e del mio avvenire.

Certamente la nuova vergogna sarebbe stata per il babbo il colpo mortale, ma per stornare il nuovo disonore dal suo capo, era necessario che io mi sacrificassi, che io cedessi alle voglie brutali di quel vecchio. Che fare?

Io pensai che al babbo non molto tempo restava da vivere: forse non sarebbe giunto in tempo a conoscere la triste verità: forse col prezzo del mio sacrifizio avrei potuto addolcire i suoi ultimi giorni.

La mattina seguente.... non andai al negozio: per molto tempo anzi non ci andai più, Ambrosina fu mandata a servire in un’altra casa ed io divenni la ganza del banchiere.... Quello che ho sofferto in quell’epoca, lo schifo, la nausea di quelle carezze (le prime) l’avversione insormontabile che mi ispirava quell’uomo, io non voglio dirle. Forse lei non ci crederebbe; ma il buon Dio che legge in tutti i cuori, avrà letto anche nel mio e forse mi avrà perdonato e benedetto quando gli uomini mi disprezzavano....

Basta, dopo sei mesi il povero babbo morì, si spense quasi tranquillamente, ignaro di tutto, benedicendoci, perdonando anche alla mamma. Egli non si accorse mai che io era incinta, non sospettò nemmeno che dopo tre mesi sarei stata quasi agonizzante in un letto d’ospedale....

Dopo il parto.... lasciai la creatura ai trovatelli, abbandonai l’Ospedale e Milano sperando di trovar lavoro altrove.

Andai a Vigevano, a Novara, ad Alessandria; ero sola, ancora debolissima, priva di mezzi.... nessuno volle aiutarmi. Allora.... non ebbi il coraggio di morire e continuai a discendere la china fatale....

[181]

Lei non ci crederà, ma questa sera quando venni qui col suo amico.... avevo fame!

— È vero! — pensai.

***

L’alba ne sorprese insonni entrambi: ella piangendo silenziosamente, io silenziosamente fumando. Mano a mano che Irene proseguiva, tra i singhiozzi, la sua storia dolorosa, il mio temperamento d’artista si ridestava, la mia fantasia ricostruiva il duplice dramma, lo carezzava, lo lumeggiava, lo coloriva. Qual meravigliosa novella se ne sarebbe potuto cavare, raddolcendo le tinte, modificando il finale, dando all’eroina l’aureola del sacrifizio e quel coraggio di morire che all’Irene era mancato, sopprimendo quella brutta appendice di vagabondaggio vergognoso che la offendeva, che ne sciupava la bellezza morale, che la diminuiva di valore ai miei occhi!...

E dinanzi a quel pianto muto, sconsolato, continuo, la mia diffidenza cadeva, si scoloriva il mio scetticismo galante; non io mi trovavo in faccia ad una donnina dall’umor sentimentale, sibbene in faccia alla sventura vivente, in faccia ad una creatura derelitta che scendeva, riluttante, la sdrucciolevole china del vizio, spinta dalla necessità, alla necessità repugnante invano.

Il caso nuovo mi interessava: la fanciulla mi pareva degna di un benevolo esame: forse parlandole di onestà, di lavoro, di riabilitazione, le mie parole non sarebbero cadute su sterile terreno. Ma anche pensai che non avendo io nè i mezzi, nè la possibilità di aiutarla a risalire l’abisso in cui era caduta, fosse più che mai crudele l’indugiarsi a dipingerle tutta l’ideale bellezza della rigenerazione morale. Poichè quando in certe sciagurate condizioni dell’esistenza non si ha il coraggio di morire, non si ha [182] nemmeno la forza di ribellarci al proprio destino e lo si segue piangenti, ma rassegnati.

— Ed ora che farai? — le chiesi.

— Non lo so.

— Non hai per l’avvenire un progetto, una speranza?

— Progetti no; speranze una sola: quella di imbattermi in un uomo che non mi tratti male, che mi accarezzi senza disgusto, che mi tenga con sè e mi ami un pochino. Io sarei la sua schiava affezionata e fedele, mi contenterei delle briciole del suo pane, delle briciole del suo amore, di tutto, purchè mi togliesse dall’infamia di questa vita girovaga che mi abbrutisce. Gli uomini non sono cattivi in fondo, ma difficilmente credono all’amore ed alle oneste intenzioni di una donna caduta; godono, vi pagano, e vi gittano via come un limone spremuto, come un giocattolo spezzato. È triste a pensarlo, ma hanno ragione: ci son tante donne che amano questo orribile mestiere, che speculano sulla loro vergogna ridendo, che non hanno cuore nè sensi e non adorano che il danaro! Ma io non ci son nata, io non riuscirò a nulla di quello a cui le altre riescono, fuorchè a morire all’ospedale; io rifiuto la mercede quando mi viene da un bravo giovane che mi ha ascoltata, che mi ha compatita, che ha avuto per me delle buone parole offrendomi l’ospitalità in casa sua....

La mia abituale diffidenza, un momento sopita, si ridestò a queste parole: il mio orrore per ogni legame, per ogni forma di collage, irrigidì l’anima mia contro l’assalto della pietà. Risposi evasivamente, sviando a bella posta il discorso:

— Povera Irene! — e dove andrai dopo di qui?

— Non lo so: io vorrei poter metter da parte un gruzzoletto, ritornare a Milano, aprire una botteguccia da sarta o da rammendatrice, o una scuola privata per bambini; ma è un sogno che non raggiungerò mai per quanto mi privi di tutto il superfluo e qualche volta anche del [183] necessario. Non lo raggiungerò anche perchè sento che questa vitaccia di strapazzi, di viaggi, di notti perdute, questi alti e bassi di orgia e di fame, mi distruggono. Chi mi ha conosciuta a Milano, un anno fa, prima della mia entrata in casa del banchiere, non mi riconoscerebbe più certamente.... Pazienza! sarà quel che Dio vorrà!

Io sentivo talmente la verità nelle sue parole, e di quella verità ero tanto penetrato, che non trovavo nemmeno la più piccola pietosa menzogna per consolarla; non sapevo che compiangerla:

— Povera Irene! povera Irene!...

················

La sveglia si mise a suonare col suo terribile suono argentino; erano lo quattro e mezzo.

— Si alza?

— Sì, vado in Piazza d’armi.

— Senza aver chiuso occhio?

— Oh! non è già la prima volta; poi a venticinque anni non ci si bada.

— Mi alzo anch’io, allora?

— Perchè? Dove vuoi andare alla quattro e mezzo del mattino? Rimani e dormi finchè io torni, farai colazione con me.

— Grazie signore! Lei è molto buono!...

Mi vestii in fretta mentre l’acqua bolliva sulla macchinetta del caffè; poi quando fui pronto la baciai sulla fronte come una buona amica, richiuse le imposte.

— Addio piccina mia, dormi bene; caccia via i cattivi pensieri.

Ed uscii.

Sulla piazza trovai Alfredo che s’avviava frettolosamente al quartiere rabbrividendo dal freddo, le mani in tasca e il sigaro fra i denti.

— Buon giorno, Alfredo.

— Oh! ciao Roberto! Bella notte eh?

— Non tanto....

[184]

— Perchè? la piccina non ti piaceva?

— Sì ma è funebre come un cippo sepolcrale: figurati che non ha fatto che piangere tutta la notte.

— Mamma mia!...

— E mi ha raccontato la sua storia; una storia straordinariamente drammatica e che ritengo vera.

— Eh via!

— Non ridere mio caro; la vita non è sempre nè per tutti allegra. Senti....

***

Alle dieci facemmo colazione insieme; ella era triste, io, cascavo dal sonno e provavo irresistibile il bisogno di esser solo. Parlavo breve, a monosillabi, le palpebre grevi di stanchezza, cullandomi nella poltrona a dondolo.

— Lei deve aver molto sonno, signore....

— Molto, carina....

— Ora me ne vado e lo lascerò dormire....

— Oh! puoi rimanere; dormirò lo stesso....

Ma dissi quel puoi rimanere, così languidamente, così di mala voglia, che ella si alzò senz’altro da tavola e andò a mettersi il cappellino dinanzi allo specchio.

— Dove vai quest’oggi?

— Non so, anderò all’Albergo.

— E questa sera?

— Al teatro: ci anderà lei?

— Non credo.

— Non ci vediamo più, allora?

— Perchè? la mia casa è sempre aperta per te....

Era il momento critico di ogni avventura d’amore venale. Dovevo pagarla? Non l’avrei profondamente ferita mettendole in mano un biglietto di banca? Ma poichè era così povera, così bisognosa!... Dove avrebbe pranzato? Chi le avrebbe pagato il teatro?...

[185]

Estrassi il portafogli con un’aria paterna: ella mi guardava fare, calzando quei vecchi guanti gialli ad un solo bottone che accusavano la sua miseria....

— Sono un povero ufficiale, non posso darti che questo, — dissi, porgendole un biglietto da dieci lire.

La mia voce aveva un tremito nel profferire quelle parole.

Irene respinse il denaro colla sinistra e portò colla destra il fazzoletto alla faccia scoppiando in singhiozzi, disperatamente....

— No.... no.... signore!

E fuggì ad un tratto per la porta semiaperta.

Io rimasi solo a pensare.

***

Dal mio giornale, giovedì 22 giugno.

... Non vedevo l’Irene da due giorni; questa mattina mentre mi alzavo bussò alla mia porta il cameriere dell’Albergo dei Buoi Rossi con una lettera di Irene diretta a me. La lettera diceva:

«Roberto,

«Quello che provo nello scriverti io stessa non saprei dire: tu mi conosci da poco, è vero, ma abbastanza per capire quanto devo aver sofferto prima di prendere questa risoluzione.

«Non mi sono mai trovata in un caso simile ed è tanta la vergogna e lo spavento che io ne provo, che questa notte non ho chiuso occhio e ho pensato al suicidio.

«Senti; mi mancano 15 lire per pagare il conto dell’Albergo; me lo diedero ieri sera e quando dovetti dire che non avevo abbastanza denaro, mi risposero: che avrei [186] dovuto avere un amico a cui scrivere; e ieri sera non mi lasciarono più uscire....

«Smetto perchè non ne posso più: puoi immaginarti come mi trovo.... mi raccomando a te!

«Il latore del biglietto è il fattorino dell’Albergo. Addio....

la tua Irene».

Io congedai il fattorino, mandandole in una busta le 15 lire. Poveretta! Le risparmiavo una nuova umiliazione da parte del padrone dell’Albergo, e compivo un mio dovere: la pagavo!

La triste parola! eppure nessuna lezione di alta morale poteva avere per lei in quel momento la efficacia di quei tre biglietti da cinque lire!

Alle dieci venne in casa mia con le sue poche robe: per poco, spero.

Oggi è uscita; forse ha fatto affari se ha trovato modo di comperarsi il biglietto per il teatro e di pagarsi il pranzo.

Questa sera è tornata da me; voleva rimanere, ma io le ho detto:

— Bambina mia, è necessario che tu vada al teatro, lo desidero. Vedi? Ammesso che tu sia ancora suscettibile di qualche onesto sentimento, noi non possiamo darci il lusso di amarci; bisognerebbe che io fossi un signore, mentre non sono che un povero ufficiale che vive del suo stipendio. Va, bambina mia, va: dappoichè non posso risparmiarti l’umiliazione della caccia all’uomo, metti il cuore in pace e scivola per la china sino alla fine....

Le ho regalato un paio di guanti, un fazzoletto, le ho prestato il binoccolo e l’ho mandata al teatro.

È uscita gettandomi uno di quei suoi sguardi tristi e rassegnati di cane fedele che mi commuovono sempre profondamente....

[187]

Venerdì 23.

Poteva esser l’una dopo la mezzanotte quando mi svegliai al contatto delle sue morbide braccia.

— Sei tu? che fai?

— Perdonami, volevo star con te un’ultima volta....

— Sei stata al teatro?

— Sì.

— E poi?...

— E poi....

Non voleva confessarmelo; ma io che le sentivo nella pelle fina un forte odore di maschio, insistei duramente:

— E poi? Voglio saperlo!

— Dal capitano Di Marco, — balbettò ella supplichevole.

— Ah!...

Fui brutale, non seppi nasconderle la invincibile ripugnanza che ella mi ispirava in quel momento. Appunto il capitano Di Marco era l’unico ufficiale del Reggimento che io odiavo per la sua straordinaria volgarità che traspariva da tutto il suo corpo tozzo e obeso di vecchio satiro. La donna che egli aveva posseduto mi faceva ribrezzo. Le voltai bruscamente le spalle mettendo tra me lei quanta distanza potevo, dicendole imperiosamente:

— Lasciami stare!

Ella pianse a lungo sommessamente.

Al mattino non scambiammo una parola: Irene mi guardava pietosamente e non osava aprir bocca.

Io andai in quartiere e la lasciai a letto.

Ritornai a casa verso mezzogiorno; ella non c’era; c’era invece sul tavolo una sua lettera che io trascrivo testualmente:

«Roberto,

«Stamattina, appena il soldato se ne fu andato, commisi un’imprudenza. Lo so, ho fatto male, ma ne ho avuto il castigo.

[188]

«Se ben ti ricordi, l’altro giorno mi hai detto che nel tuo giornale parlavi di me; il tuo contegno di questa notte, quello di stamattina, non me li potevo spiegare.... Ieri sera avevo veduto il tuo libro sul tavolo ed ero certa che ci avevi scritto qualcosa a mio riguardo. Non seppi resistere alla tentazione, ho fatto male, lo so, perdonami se vuoi: ho letto.

«Roberto, dalla mia più tenera infanzia non rammento di aver provato una gioia vera, neppure quella che a nessun bambino è negata; il casto bacio della mamma sua. Ti ho raccontato qualche cosa della mia vita, ma i patimenti ati sono un nulla al confronto di quello che ho sofferto oggi.

«Non so che cosa accada dentro di me, ma ho paura; ieri sera e questa mattina ho pianto e sai il perchè. Credevo che ti fosse cara la mia compagnia; era una gioia nuova per me; fino ad ora non avevo trovato che persone che si ridevano di me, avevo sofferto di vedermi trattata così, avevo pianto al pensiero di doverti dimenticare, ma mi rimaneva l’illusione che tu fossi il solo a non disprezzarmi.

«Ieri soffrivo di più, è vero, ma in fondo al cuore ero felice. Che cosa provai nel leggere quello che tu stesso hai scritto di me, sul tuo giornale, non lo saprai mai.

«Ah! l’avessi saputo ieri, di qual disgusto ti avrei liberato!

«So quello che si prova nel trovarsi vicino ad un essere ripugnante, perchè anch’io l’ho molte volte provato. Roberto, il mio castigo l’ho bell’e avuto: non riescirò mai a dimenticare il ribrezzo che ti devo aver fatto questa notte. Non ti domando perdono perchè so benissimo che non lo avrò mai.

«L’unica cosa di cui ti prego, se pure una mia preghiera può trovar grazia presso di te, è questa: Se un giorno la mia immagine si presentasse alla tua mente, se un giorno tu ti ricordassi di me, non odiarmi; è l’unica [189] speranza che mi resta. In quanto a me, se Dio non pensa a farla finita, io non ho più il coraggio di continuare a vivere così.... La vita per me adesso non è più solamente odiosa, è insopportabile.

«Finisco con un augurio ardentissimo: Che tu non possa mai provare l’infima parte di quel dolore che le tue parole hanno fatto provare a me.

«Dicono che c’è un giorno in cui la verità risplenderà di luce meridiana. In quel giorno forse ti dorrà di avermi così ingiustamente punita. Addio!

Irene».

Povera fanciulla! Quanto cuore, quanto sentimento in quelle due paginette! Io l’avevo crudelmente offesa senza comprendere nulla di quanto si svolgeva in quell’anima sventurata, io ero stato brutale con lei ed avevo sdegnato la sua umile sottomissione, il suo umile amore!...

Io non avevo capito che anche tante sciagurate che la società gitta nel fango della via, hanno un cuore buono, un’anima nobile che si ribellano agli insulti quotidiani della vergogna.

Il poeta ha ragione

. . . . nel turbato

animo d’una donna si compendia

l’agitarsi del mondo.

***

Molti mesi arono senza che io dell’Irene potessi aver più notizia, ma un giorno dall’Ospedale principale di Milano mi giunse il suo appello ultimo e disperato.

Era un vecchio biglietto da visita a stampa, ingiallito dal tempo e portava sul dosso poche righe vergate da una mano tremante. Diceva:

[190]

«Roberto mio,

«Quando ti dissi che la mia breve tragedia avrebbe avuto il suo epilogo all’Ospedale non mi ingannavo. Ci sono infatti da due mesi e in quel fatale reparto (tubercolotiche) dal quale non si esce che tra le quattro assi di una bara, dopo una breve permanenza sul tavolo anatomico. Non ho nessuno accanto a me, nè la mamma, nè le sorelle, ma questa notte ho sognato che prima di morire vedrò ancora una volta l’unica persona che io abbia veramente amato.

«Sotto l’impulso di questa suggestione ti scrivo. Verrai?

tua Irene».

Chiesi cinque giorni di licenza e partii subito per Milano; l’appello di un morente è cosa sacra, tanto più sacra in quanto toccava a me il darle la consolazione estrema, a me che ella aveva amato e da cui era stata crudelmente offesa.

La stagione era rigida; neve dappertutto, sui monti e sul piano: i ruscelli erano gelati, dai rami degli alberi, scheletriti e contorti, pendevano ghiaccioli multiformi.

Cinque ore di strada ferrata in quella candida desolazione, sotto quel cielo di piombo, in quell’aria di gelo. Il pensiero, assiduo tarlo, mi tormentava: la troverò ancora viva? potrò io chiuderle gli occhi? potrò darle la consolazione sognata, di una buona parola, di una carezza estrema? Lo speravo. Ma perchè aveva amato me che non avevo fatto nulla per farmi amare? Perchè, al momento di entrare nell’eternità, chiamava me al suo letto di dolore con tutte le forze del suo desiderio, mentre lamentava appena l’assenza della madre, l’assenza delle sorelle? Misteri dell’anima femminile! Era l’eterno dramma di Margherita Duplessis che si svolge ogni giorno nella vita sotto forme diverse in diversissimi ambienti, ma identico nella sostanza.

[191]

Mi tornavano alla mente le sue semplici e desolate parole: la vita non è sempre nè per tutti allegra, pensavo al suo semplice ed eroico sacrifizio, alla sua infanzia, contristata dall’infamia materna, alla sua vita randagia e miserabile degli ultimi mesi. Povera Irene! Ed ora forse invocava la morte come una liberazione, dopo aver tanto sofferto, dopo aver tanto sognato, dopo aver tanto ed invano inseguito il fantasma dell’amore traverso alle sozzure dell’esistenza....

Quelle cinque ore di corsa affannosa traverso alle sterminate pianure lombarde, coperte di neve, furono eterne; ma finalmente arono.

Alla stazione mi gettai in un brougham, divorato da una mortale impazienza.

— All’Ospedale principale, di galoppo! Una lira di mancia.

Ma c’era un nebbione fitto e denso che avvolgeva le strade in una tenebrìa paurosa e bisognò contentarsi di andare al piccolo trotto.

All’ospedale per giungere al reparto delle tubercolotiche mi si affacciarono molte difficoltà; ma un giovane medico che mi conosceva mi guidò alla corsia dov’era l’Irene.

— Come sta?

— È agli estremi: ha già ricevuto i Sacramenti.

Giungemmo al letto dove pregava una suora di carità giovanissima: Irene vi giaceva immobile, coperta sino al mento, più bianca di un giglio: aveva gli occhi semichiusi, già velati dalle nebbie della morte.

Io ai sulla sinistra del letto, mi chinai sul capezzale, la chiamai all’orecchio dolcemente:

— Irene! Irene!

Fu l’ultimo guizzo della fiammella: spalancò i grandissimi occhi neri, mi riconobbe, sorrise, tentò rizzarsi a sedere sul letto e ricadde col capo sui cuscini. Morta.

Il dottore constatò il decesso mentre io, ritornato credente in faccia al pauroso mistero, pregavo fervidamente. [192] La suora di carità aveva messo un crocifisso tra le mani di Irene conserte sul petto e si era messa a piangere dirottamente. Poi si alzò, asciugò le lacrimo, si fece il segno della croce e mi disse, mentre io la guardavo colpito dalla sua rassomiglianza colla morta:

— Siete voi il tenente Roberto?

— Sono io, sorella!...

— La poveretta vi aspettava da molto tempo: diceva sempre che voi le avreste chiuso gli occhi. Adempite adunque il suo ultimo desiderio e lasciatela in pace. Ho ottenuto di farla seppellire intatta, accanto a suo padre, nel cimitero monumentale. Se volete portarle dei fiori andateci domani sera verso le cinque. Ed ora lasciateci.

Baciai la morta sulla fronte gelida e seguii il dottore mentre la suora tirava le cortine del letto e si rimetteva a pregare.

— Che pensi? — mi domandò il dottore come fummo fuori.

— Alla povera morta e alla strana somiglianza di lei con la suora di carità che l’assisteva.

— Non c’è da meravigliarsi. Suor Ambrosina e l’Irene erano sorelle.

— Ah!...

Ed uscii dall’Ospedale commosso, pensando che la vita presenta più anomalie ed inverosimiglianze del più arrischiato romanzo fantastico.

[193]

PICCOLA LICENZA 2w4p1

Dirimpetto all’osteria con stallaggio di padron Nicola, sulla piazza grande, dove la diligenza era solita a fermarsi, un capannello di contadini maschi e femmine, circondava Bista tutto attillato e lindo nella sua bella uniforme di bersagliere.

Bista era commosso e la sua commozione gli si leggeva sul viso malgrado gli sforzi erculei che faceva per parere disinvolto, malgrado i buffi di fumo bianco che gli uscivano di bocca affrettatamente, malgrado l’aria d’importanza con cui teneva fra i denti il prelibato minghetti regalatogli dal curato.

Era commosso e si appoggiava sulla spalla del vecchio padre e sul braccio di quella vecchietta di donna Veronica sua madre, che lo guardavano cogli occhi imbambolati pieni di lagrime, pieni d’ammirazione.

Suo cognato uscì dall’osteria di padron Nicola con un vassoio pieno di bicchieri e con un grande boccale di vino.

— L’ultimo bicchiere alla salute di Bista — disse.

E mentre Teresa gli teneva il vassoio, cominciò a riempire [194] tutti i bicchieri fino all’orlo di quel bel vino biondo-dorato che non si trova che nei castelli romani.

— È di Marino puro sangue — seguitava il cognato invitando collo sguardo gli astanti, un vinetto che farebbe risuscitare un morto.

Teresa portò in giro il vassoio e ne offrì a tutti; ma Bista non aveva sete; un nodo doloroso lo stringeva alla gola come una morsa; voleva rifiutare.

— Grazie, Teresa, mi farebbe male.

— Bevi, che ti fa bene.

Dal crocchio si levava un coro di voci affettuose; tutti volevano che Bista bevesse; avrebbero voluto coprirlo d’oro, se avessero potuto, quei buoni contadini. Anche donna Veronica gli porse il bicchiere supplicandolo collo sguardo.

— Bevi, figlio mio.

Bista cedette: sollevò il bicchiere ricolmo contro il sole come se avesse voluto leggervi dentro il suo destino: poi lo avvicinò alle labbra e lo tracannò tutto d’un fiato.

Don Fulgenzio, il parroco, dalla porta della chiesa si godeva lo spettacolo colle mani grasse e pelose sul ventre prominente, col suo solito sorriso confidente e bonario.

Appena lo videro lo chiamarono subito rispettosamente, togliendosi il cappello, da gente bene educata.

— Don Fulgè! Bevete un bicchierotto con noi; è di quello vecchio, proprio di Marino sapete?...

Don Fulgenzio si avvicinò al crocchio e la bella sorella di Bista gli porse il vassoio dove c’erano ancora due bicchieri ricolmi fino all’orlo. Il buon prete cominciò a centellinare sibariticamente il vecchio Marino.

— Siamo di partenza eh! Bista?

— Pur troppo, signor curato! Dieci giorni volati via come razzi!... Già quando si sta bene!...

La conversazione divenne generale; parlavano tutti insieme a voce alta circondando Don Fulgenzio che troneggiava in mezzo al crocchio colla sua alta statura di gigante, [195] col suo ventre enorme; il vice brigadiere dei carabinieri e quello delle finanze arrivarono giusto in tempo per stringere la mano a Bista e per tracannarsi un bicchiere del vino asciutto di padron Nicola.

Ma la diligenza non arrivava ancora. Bista era preoccupato; fra tutta quella gente che lo circondava, ci mancava ancora una persona che avrebbe dovuto venire.

Perchè Graziella non era là? Ora una grande inquietudine lo teneva; la diligenza poteva arrivare da un momento all’altro, e lui non l’avrebbe potuta salutare un’ultima volta. Si piegò all’orecchio di Teresa che raccoglieva nel vassoio i bicchieri vuoti.

— Teresa, dov’è Graziella?

Teresa si guardò attorno e poi rispose con un sorriso maliziosetto:

— Non c’è, ma verrà.

In distanza si sentivano gli schiocchi della frusta e le sonagliere dei cavalli; la corriera si avanzava al gran trotto nel bianco stradone polveroso.

— Don Fulgè, Treviso è lontano?

— Eh!... — fece don Fulgenzio trinciando l’aria d’alto in basso colla sua manaccia pelosa, come per indicare una distanza enorme.

Ora che il trotto dei cavalli si sentiva distinto, donna Veronica piangeva dirottamente. Non ne poteva più: si era contenuta anche troppo per rispetto alla gente.

E una tenerezza grande invase tutti gli spettatori di quella scena commovente: Pierina, la sorella più piccola, si era stretta alle braccia di donna Veronica e piangeva anche lei. In breve, Bista, il vecchio padre, Teresa e gli altri formarono un gruppo solo, stretti assieme dalla commozione grande dell’addio.

Don Fulgenzio, intenerito anche lui, voleva parlare, voleva consolare i due poveri vecchi.

— Andiamo via!... Alla fin dei conti son sette mesi, non è vero, Bista?

[196]

Bista fece segno di sì col capo: ma non poteva rispondere; se avesse parlato avrebbe rotto anche lui in uno scoppio irrefrenabile di pianto; epperò si irrigidiva contro l’emozione, martoriato da un’altra puntura, addolorato profondamente dalla mancanza di Graziella.

— Non piangere, mamma, fra sette mesi ritorno.

— E se ti rimandano in Africa? — domandò la povera donna afferrandolo per la manica in un nuovo schianto di singhiozzi.

— Non c’è pericolo, mamma, non c’è pericolo.

La diligenza si fermò e nessuno discese; il vetturale si fece dare un mezzo litro da padron Nicola e lo bevve a cassetta, mentre Bista montava. La diligenza era quasi vuota: lì sullo sportello si fecero gli ultimi addii, si scambiarono gli ultimi baci e le ultime strette di mano.

— Addio, Bista!

— Addio, Teresa!

— A rivederci a settembre.

— Va bene. Salutatemi don Antonio.

— Addio! Buon viaggio!

— Buon viaggio!...

E la pesante vettura traversò il piazzale e disparve al trotto in un nuvolone di polvere densa. Ad un tratto dietro alla larga fratta delle more partì un grido:

— Bista!...

Bista si svoltò di scatto e s’affacciò allo sportello. Nella macchia scura della fratta una forma umana agitava nell’aria un fazzoletto rosso in segno di saluto.

Bista sventolò dal finestrino il suo moccichino bianco delle feste e gridò con quanto fiato aveva in gola:

— Addio, Graziella!...

Poi tutto scomparve nel turbinìo polveroso sollevato dalla diligenza....

[197]

***

Col capo appoggiato sulle mani, Bista pensava.

Quei dieci giorni trascorsi a casa dopo due anni di assenza, erano stati dieci giorni di paradiso; se li vedeva sfilare dinnanzi alla memoria ad uno ad uno con una meravigliosa limpidezza e non gli pareva nemmeno vero di trovarsi lì sul sedile della diligenza che traballava con scricchiolii di vecchia carcassa sui sassi della strada. Che giorni! Che stupende serate in casa di don Antonio, che delizia di balli al suono dell’organino!...

Era lì che aveva ritrovato Graziella in tutto il rigoglio possente della sua giovinezza gagliarda. Quando l’aveva lasciata due anni fa, era una bambina esile, palliduccia, dai capelli nerissimi, sempre arruffati, che stava tutto il giorno nei campi al solleone d’agosto. Ora non la si riconosceva, era cresciuta di molto e le sue forme di adolescente stecchite e rigide, si erano fatte graziose e tondeggianti nello sviluppo della pubertà; i capelli nerissimi e ravviati avevano ora una lucentezza morbida che indicava la carezza del pettine; gli occhi stupendi avevano un’espressione nuova di pudore, di sentimentalità intensa e profonda.

Il solleone d’agosto non aveva potuto abbronzare quella pelle bianchissima su cui l’incarnato delle guancie si diffondeva in una gentile sfumatura color rosa-pallido. Si erano sentiti attratti l’uno verso l’altra senza saper come, invincibilmente; nel calore del ballo poi lui aveva sentito palpitare sul suo largo torace il suo bianchissimo petto di vergine, aveva respirato il profumo campestre dei suoi capelli.

Nessuno sapeva ballare il valzer meglio di lui; nessun’altra ballava come lei, e la gente si fermava ad ammirarli battendo le mani.

[198]

Un giorno l’aveva trovata in campagna intenta a rastrellare; una giornata stupenda di primavera con un’arietta profumata di timo che allargava i polmoni.

Era sola; si sedettero sull’erba tutti e due confusi, tutti e due commossi. Che cosa si erano detti? Lo ignorava; si ricordava solamente di una gran sensazione di dolcezza provata, di qualche cosa di infinitamente bello; ma era tornato a casa con un grande sbalordimento nel cervello, col cuore che pareva gli si dovesse spezzare. Poi quelle visite si ripeterono ancora; stavano delle ore muti, guardandosi negli occhi, tenendosi per le mani sotto la carezza tiepida del sole.

A volte lui le parlava dell’Africa, di quel paese lontano e meraviglioso dove tanti fratelli hanno trovato una morte gloriosa; ed ella lo ascoltava attentamente ansiosa di sapere, felice di sentirlo parlare.

Poi si alzavano gravemente e si davano l’addio con uno sguardo lungo, insistente che diceva mille cose, che pareva una carezza infinita....

***

— Tu ritorni a Treviso e ti dimentichi di me — gli disse Graziella gettandogli le braccia al collo in un delizioso abbandono.

— Impossibile, Graziella dovrei dimenticarmi di mia madre prima.

E la baciava sulle labbra rosse.

Quei baci Bista non li poteva dimenticare, gli erano entrati nel sangue come un veleno dolce e non lo lasciavano più in pace; li sentiva ancora sulle labbra riarse, scottanti come il fuoco.

L’ultima volta che si videro fu in casa di don Antonio. Dopo il valzer finale, ballato con tutto il sentimento della [199] prossima separazione, Graziella lo aveva preso per una mano e lo aveva condotto per la scaletta buia dell’anticamera.

— Quando parti?

— Domattina colla diligenza delle dieci.

— Ti accompagno.

— Dove?

— Fino ad Anguillara, poi ti lascio.

— Ma è impossibile!

— Voglio così!

— Fa quel che Dio ti ispira!...

— Dammi un bacio....

Non uno, cento baci apionati, disperati, si scambiarono così nell’oscurità della scaletta; cento baci e cento promesse di fedeltà. Alla fine dovettero separarsi.

— Verrai?

— Verrò.

E non era venuta; e si era limitata a salutarlo dietro la fratta delle more. Perchè?

Bista ci perdeva la testa; forse si era vergognata di salutarlo in faccia a sua madre, in faccia a tanta gente; forse....

***

— Anguillara! gridò il postiglione fermando i cavalli.

Bista si destò di soprassalto: aveva fatta tutta la strada assorto così in quella fantasticheria dolce, in quell’evocazione di ricordi dolcissimi.

Si alzò, prese la piccola valigia e discese. D’un tratto si riscosse; aveva sentito una voce fievole pronunciare il suo nome.

Si volse, ebbe appena il tempo di mandare un’esclamazione. Graziella gli si precipitò tra le braccia affannata [200] da una corsa di due ore attraverso ai campi, ai cespugli, ai corsi d’acqua per tener dietro alla diligenza.

La povera fanciulla era agli estremi di tutte le forze; si abbandonò su lui strangolata dall’affanno, col petto gonfio, colle labbra violacee.

Bista la sostenne amorosamente, le asciugò il sudore colla sua pezzuola bianca delle feste.

— Che cosa hai fatto, Graziella?

La fanciulla ebbe un sorriso divino.

— Te l’avevo promesso — disse.

E svenne.

[201]

ZULÙ (MEMORIE AUTOBIOGRAFICHE DI UN CANE). 2s1973

Dall’atto del mio arruolamento nel 98º Reggimento fanteria può dirsi incominci la storia della mia vita.

Non so perchè, ma sino dall’infanzia ebbi sempre una spiccata predilezione per i militari. Mi ricordo benissimo che le mie prime corse, i miei primi salti di allegrezza li ho fatti in piazza d’armi, tra le zampe dei cavalli, tra le file dei soldati; e siccome ho sempre visto che la simpatia è reciproca, così i cavalli mi rispettavano ed i soldati mi volevano bene.

D’altronde il mio padrone (uno spregevole ciabattino che io consacro al disprezzo dei posteri) mi allungava più calci che pezzi di pane e mia madre, appena fui divezzato, mi trascurava per abbandonarsi a colpevoli amori con gli altri cani del quartiere.

La piazza d’armi dunque era il mio rifugio; oltre al pane quotidiano ci trovavo qualche volta dello stupendo companatico, come buccie di formaggio e rimasugli di carne che i soldati lasciavano cadere; avo così delle [202] mattinate magnifiche accovacciato al sole con qualche osso tra le zampe e colla mente assorta in un’idea fissa.

Diventavo grandicello ed anche abbastanza brutto (questo almeno mi dicevano i cani degli ufficiali che subodoravano in me un futuro rivale); si trattava di farsi una posizione onorevole nel mondo, di assicurarsi un pane per la vecchiaia; quello del ciabattino oltre all’essere nero e di cattiva qualità, era troppo spesso accompagnato da un detestabile companatico di legnate, perchè io non pensassi a cambiarlo.

— Se diventassi il cane del Reggimento! — pensai tra me.

Questa idea orgogliosa mi faceva sorridere, ma mi perseguitava di giorno e di notte, nei miei sogni come nelle mie matte scorribande.

A forza di pensarci, finii per trovarla ragionevole e per cercare i mezzi di metterla in esecuzione.

Per i soldati sarebbe stato il meno; la nostra reciproca amicizia datava da un pezzo; il difficile stava nel cattivarsi la simpatia degli ufficiali e specialmente quella del Colonnello, la cui faccia burbera mi impensieriva non poco.

Allora come un innamorato sapiente, cominciai a far la mia corte al Reggimento armandomi di pazienza e di amabilità.

Al mattino, all’ora della sveglia, ero già sulla porta del quartiere. Bisogna dire, però, che le prime accoglienze non furono le migliori; la prima volta che mi appostai in faccia al portone della caserma, ignorando ancora il Regolamento di servizio territoriale, andai a scodinzolare intorno alla sentinella per darle il buon giorno ed ahi! una terribile calciata di fucile nel.... treno posteriore, mi insegnò che in servizio non c’è amicizia che tenga.

Ma non mi sgomentai per così poco; tornavo tutte le mattine al solito posto e stavo per delle lunghe ore dinanzi alla porta facendo un attento studio delle varie fisonomie per sapere se dovevo aspettarmi un calcio o una carezza.

[203]

Al sopraggiungere di qualche ufficiale mi alzavo rispettosamente e lo salutavo a modo mio, accompagnandolo per cinque o sei i.

Dopo un mese li conoscevo tutti e cominciavo a sperare che il mio sogno si sarebbe realizzato.

Allora cambiai tattica: ogni volta che il Reggimento usciva dal quartiere, io lo precedevo e galoppavo dinanzi ai trombettieri colla coda alzata e le orecchie all’aria abbaiando di contentezza, poi fuori della città mi mescolavo tra le file.

I soldati mi chiamavano per ischerno Zulù, e il brutto nomignolo diventò ben presto il mio nome abituale.

È curiosa! Sono ormai dieci anni che ci vado almanaccando su, e non riesco ancora a sapere che cosa significano quelle quattro lettere messe in fila.

Ma torniamo a bomba.

I primordi della mia vita militare furono duri anzichenò; mi toccava a fare delle marcie lunghissime in quella terribile campagna siciliana, col muso nella polvere, o colle quattro zampe nel fango, secondo la stagione; non si arrivava mai, e certe volte prima di partire non avevo nemmeno mangiato.

Ma ci si abitua a tutto ed io mi abituai anche a quello, tanto più volentieri in quanto vedevo rapidamente avvicinarsi il momento che doveva decidere del mio avvenire.

E questo momento fu affrettato dalla benefica protezione di due ufficiali. Uno di questi era un capitano alto, magro, con una faccia di pensatore, sulla quale splendevano due occhi pieni di intelligenza e di bontà; non appena lo vidi mi andò subito a sangue e cominciai a seguirlo da lontano.

Tutti i giorni alle quattro usciva dal quartiere e se ne andava in campagna, ciò che eccitava al più alto grado la mia curiosità. Diavolo! che cosa ci poteva essere di interessante in campagna all’infuori della polvere e del fango?

[204]

Volli vedere a che punto finivano le sue gite e cominciai a seguirlo prima alla lontana e poi avvicinandomi sempre più e cercando di attirare su di me la sua attenzione.

Un giorno lo vidi chinarsi e raccogliere un sasso. Io, naturalmente, me la diedi a gambe, sicurissimo che me l’avrebbe lanciato sul groppone, ma con gran mia sorpresa, quando mi fermai, lo vidi ancora lì nella stessa posizione guardando il sasso con aria soddisfatta; poi se lo mise in tasca e continuò il suo cammino. Io lo seguii pensieroso: che cosa poteva esserci di così interessante in quel sasso? Perchè era proprio un sasso, lo avevo veduto io con i miei occhi, un sasso come tutti gli altri, senza nessuna particolarità. Allora perchè se l’era messo in tasca?

Mentre facevo queste riflessioni il capitano si fermò e ne raccolse un altro; tirò fuori di tasca quello di prima e li confrontò tutti e due guardandoli contro luce. In verità io non ci capivo nulla; andai di corsa sul posto, guardai, annusai quel mucchio di sassi, ma non mi venne fatto di scoprirvi nulla di straordinario.

E il più curioso si è che questo strano incidente si ripeteva tutti i giorni. Dove portava il capitano tutte quelle pietre? Voleva forse costruirsi un palazzo? Non ho mai potuto saperlo con certezza ed ho finito per concludere che gli uomini sono una manica di originali. Il fatto sta che la mia compagnia cominciò a piacere al capitano; mi chiamava, mi accarezzava sulla testa, mi chiamava bitonto (uno strano epiteto che è rimasto sempre un enigma per me) e alle volte lo sorprendevo a guardarmi fisamente con un interesse speciale, con un’aria soddisfatta, come quando guardava i sassi che raccoglieva per la strada.

Una volta mi disse staccando una pietruccia da un muro:

— Povero bitonto! tu non ne capisci nulla di geologia, eh?

[205]

Io rimasi a bocca aperta; alla sera corsi da un mio vecchio amico, un cane di Terranova che ava per un mostro di erudizione, per chiedergli la spiegazione di quelle enigmatiche parole.

Ma il vecchio si strinse sdegnosamente nelle spalle e mi rispose alzando la gamba contro un paracarro:

— Cosa vuoi che ne sappia io!

E se ne andò lasciandomi con un palmo di naso.

Malgrado queste stranezze il capitano ed io diventammo inseparabili. Una volta mi portò a casa sua, mi fece un mondo di complimenti, ordinò al soldato che mi preparasse una zuppa, e mi fece entrare nella sua stanza. Quale non fu la mia meraviglia quando vidi sopra un mobile, perfettamente allineati, tutti i sassi che gli avevo veduto raccogliere da un anno a questa parte!... Naturalmente non fui tanto indiscreto da fargli delle domande, mi contentai della zuppa e mi sdraiai in un cantuccio....

***

L’altro mio protettore era un sottotenente (ora è capitano, beato lui!) piccoletto, tarchiato, con un paio di baffi alla chinese, con un’aria insolente che era un piacere a vederlo. Si chiamava, mi pare, Giuliani.

Giuliani dunque mi introdusse in società e mi fece fare le più strane conoscenze; di giorno non lo vedevo mai, ma di sera gli tenevo compagnia fino a tarda ora per tutte le strade più buie e meno frequentate di Palermo. Anzi posso dire che il Palermo vero, il Palermo dei sobborghi, dove non mi sarei arrischiato di entrare, me lo ha fatto conoscere lui.

Però il suo campo di battaglia era la piazza dell’Ucciardone; quante eggiate in lungo e in largo per quella piazza benedetta!... Alle volte mi seccavo discretamente, ma la pazienza è sempre stata il mio forte.

[206]

Finalmente verso mezzanotte Giuliani infilava la porta di casa (ma allora non era più solo) e io dietro. Le prime volte mi lasciava nel corridoio, fuori dell’uscio, ma una sera che faceva molto freddo preso dalla comione mi disse, aprendo la porta:

— Povero diavolo, entra anche tu!

Ed io entrai.

Da quel giorno, anzi da quella notte, la mia posizione nel Reggimento fu fatta.

Protetto dal capitano e da Giuliani, le vagheggiate porte del quartiere e quelle anche più vagheggiate della mensa ufficiali, si spalancarono dinanzi a me. Allora incominciai a provare tutte le voluttà del lusso: d’estate dormivo in giardino al fresco, d’inverno nella camera dell’ufficiale di picchetto accanto alla stufa; il pane dei soldati che mi era sembrato per l’addietro tanto buono, non solleticava più il mio palato che si andava abituando a ben altre ghiottonerie. I miei gusti si affinavano nella compagnia degli ufficiali, il mio pelo sotto lo strofinìo del sapone e della spazzola, diventava lucido e brillante; smisi le mie abitudini girovaghe per contrarne di più signorili e casalinghe, diventai insomma aristocratico e guardavo dall’alto in basso quegli altri poveri diavoli di cani randagi che mi rammentavano l’umiltà della mia origine. Per questo fatto anzi il tenente Mario Sferra, l’unico ufficiale a cui non andassi troppo a genio, mi chiamava, e non so perchè, Rabagas e gli altri ridevano mentre io mugolavo dalla rabbia e di nascosto gli mostravo i denti.

Allora, nella prima ebbrezza della popolarità conquistata, nella folle certezza che il favore dei potenti sarebbe eternamente durato, io non capivo quanto la mia superbia mi alienasse l’animo dei poveri soldati che erano quelli che mi avevano aiutato a salire, e odiavo il tenente Sferra che non mancava di chiamarmi coll’odioso nome di Rabagas, ogni volta che mi incontrava per i corridoi, o per [207] le scale del quartiere. Lo odiavo cordialmente e meditavo già di fargli un brutto tiro, quando improvvisamente la mia felicità crollò come un castello di carte.

Se volete saperlo è andata così.

Un giorno il Colonnello annunziò sull’ordine del giorno che il nuovo generale di Divisione avrebbe ato in rivista il Reggimento nelle rispettive camerate.

Io dall’insolito affaccendarsi dei soldati a lustrar bottoni e giberne, dalla frequenza delle riviste preparatorie, mi accorsi subito di ciò che c’era di nuovo, ma non me ne diedi per inteso. Ne avevamo ate tante riviste di generali!...

Cosicchè al mattino quando la tromba di guardia suonò il duplice attenti, il Colonnello, gli ufficiali superiori ed io, corremmo incontro al generale nell’atrio del quartiere. Io gli feci anzi una quantità di finezze strofinandogli il muso contro i pantaloni, tanto che mi guadagnai subito una famosa pedata.

Quel generale che (lo seppi dopo) aveva dei cani una paura irragionevole ed assurda, dopo avermi gratificato di quel calcio tutt’altro che gentile, si volse al Colonnello con un’aria corrucciata e spaventata e domandò:

— Ma di chi è questo cagnaccio?

Io, fermo a rispettosa distanza, mi aspettavo naturalmente che il Colonnello avrebbe preso le mie difese dichiarando che io ero il cane del Reggimento; ma la domanda del generale e quella parola cagnaccio erano state pronunciate con un tono di voce così poco incoraggiante, che il Colonnello, capita l’antifona, rispose con voce strozzata:

— Ma.... non so.... sarà entrato per caso....

E rivoltosi al maggiore più giovane gli disse seriamente:

— Maggiore, lo faccia cacciar via!

— Cani in quartiere — disse il generale rasserenandosi, mentre io mi allontanavo — non ce ne vorrei vedere....

— Non dubiti! — rispose il Colonnello salutando.

[208]

Fui cacciato via.... come un cane. E come se la pedata del generale e lo schiaffo morale subìto, non fossero stati sufficienti, il caporal di guardia mi scaraventò sul groppone la sua gavetta che io avevo sdegnosamente rifiutato poche ore prima e la sentinella mi ficcò due centimetri di baionetta nel sedere.

Allora ricominciarono le dolenti note: la persecuzione veniva dall’alto, di là dove mi erano piovuti i favori, e incrudeliva in basso presso coloro che io avevo sfuggito nei momenti della buona fortuna. Ahimè! la camera dell’ufficiale di picchetto, la bella sala della mensa, furono per sempre chiuse per me. L’ordine era perentorio: cani in quartiere non ce ne dovevano entrare ed io mi trovai in mezzo alla strada, morente di fame, guardando supplichevolmente ed invano tutti gli ufficiali che entravano ed uscivano.

Una mattina (anche la vergogna ultima mi era riserbata!) il terribile laccio dell’accalappiacani mi sorprese nel mio malinconico via vai dinanzi alle porte del quartiere.

— È finita! — pensai rassegnato, mentre due mani d’acciaio mi chiudevano sul capo il pesante sportello del carro.

E mi rincantucciai in un angolo stoicamente, preparandomi alla morte.

La salvezza, la vita, la libertà dovevano venirmi dall’uomo che io odiavo di più, da colui che mi chiamava col nome schernitore di Rabagas, dal tenente Mario Sferra.

Appena conobbe la mia sciagura egli corse al Municipio, pagò la tassa, mi fece uscire dalla prigione.

— Povero Rabagas! — mi disse accarezzandomi la testa — anche tu hai provato l’instabilità della fortuna e del favore dei grandi. Vieni con me; ti odiavo quando godevi di tutti i privilegi, ora che tutti ti abbandonano io ti offro un ricovero e un pezzo di pane. Vieni!...

Io lo ringraziai piangendo: tutto il mio odio era svanito dinanzi alla generosità di quell’azione. Che animo grande! [209] che nobile cuore!... Anche all’inferno lo avrei seguito se me lo avesse comandato.

E diventai il suo amico fedele.

***

Ora ho due palle di revolver nelle costole che mi fanno soffrire come un dannato e il veterinario dice che non c’è più speranza, che è questione di giorni. Pazienza! muoio contento perchè a mia volta ho salvato la vita al mio generoso benefattore; non dico con questo di essermi del tutto sdebitato, ma insomma ho fatto del mio meglio per dimostrargli la mia riconoscenza, no?...

Fu l’altra sera: una serataccia da lupi. Si andava al solito posto, una casettina in campagna dove c’era una signora bionda bella come un angelo e una stupenda levriera che mi faceva l’occhietto. Io facevo la guardia pur non mostrandomi sordo agli inviti civettuoli della simpatica levriera.

Ad un tratto un uomo armato balza nell’anticamera e vuol precipitarsi alla porta affidata alla mia custodia. Naturalmente io lo afferro ai polpacci per impedirgli il aggio ed egli urlando come un dannato pin! pan! mi scarica due colpi a bruciapelo. Io ho visto le stelle, ma ho tenuto duro e ho morso bene; l’importante fu che il mio tenente e la signora ebbero tempo di salvarsi dal furore di quell’indemoniato. Sarà l’unica cosa buona che abbia fatto nella mia vita, e se morirò pazienza! Saranno in due a compiangermi, a esclamare sulla mia tomba:

— Povero Zulù! Che brava bestia!...

[211]

DURA LEX.... t5c1f

La cittaduzza dormiva in quel pomeriggio torrido e afoso di agosto, tutta inondata di sole; non una bava d’aria, non la più piccola nube in quel cielo che era tutto uno sbarbaglio di fuoco; dormivano i grandi platani del viale e i pioppi della Dora; lo stradone bianco, diritto, interminabile si stendeva a perdita di vista fra il giallo dei campi mietuti. Di tanto in tanto il trotterello secco di un asino, il tintinnìo delle sonagliere di qualche mulo, lo schiocco di qualche frusta rompevano il silenzio tropicale: tra i pioppi la Dora fuggente aveva un lieve fruscìo argentino.

— Grossa manovra oggi — disse Pasquale Cifariello l’attendente affacciandosi al balcone, facendo solecchio colla mano per vedere più lungi sulla strada.

— Poveretti! — esclamò la signora Giulia sospirando mentre apparecchiava la piccola tavola rotonda.

— Le tre — mormorò Pasquale guardando la pendola — saranno andati molto lontano?...

[212]

E strofinava rabbiosamente i bicchieri spiando di sottecchi i moti della padrona che diventavano nervosi man mano che l’inquietudine cresceva.

— Le tre! — Il Reggimento era dunque fuori da otto ore: otto ore di quella canicola, di quella interminabile fiamma, sul greto ardente della Dora, tra le stoppie bruciate, sulle strade polverose, dovevano parere ben lunghe a quei poveri soldati se parevano tanto lunghe a lei!

Chi sa in quale stato sarebbero venuti a casa!

Le pareva già di vedere il volto abbronzato di Gustavo reso irriconoscibile dalla polvere e dal sudore.

— Pasquale, hai preparato l’acqua per il tenente?

— Sissignora!

— Guarda un po’ se arrivano.

Pasquale si piantò sul terrazzo coi gomiti sulla ringhiera, interrogando l’orizzonte col suo sguardo acuto di contadino. Veniva dalla piccola cucinetta un sano e appetitoso odor di vivande; sul fornello la pentola aveva un borbottìo carezzevole.

Tutto era pronto, non si aspettava che lui: ad un tratto Pasquale disse a voce alta allegramente:

— Eccoli, signora, eccoli!...

Subito Giulia corse al balcone sfidando la ferocia del sole pomeridiano, aguzzando la vista.

— Dove? dove?

— Laggiù sullo stradone, dove c’è quella nuvola di polvere bianca, vedete signora?

— Vedo, vedo.... — ella rispose, allegra.

Era una figurina esile e bionda di un biondo caldo pieno di riflessi. In tutte le linee del volto e del corpo aveva quella mirabile proporzione che è la miglior caratteristica della bellezza: un visino di Madonna illuminato da due grandi occhi di un azzurro carico, da una boccuccia rosea quasi sempre aperta al sorriso su due spalliere di dentini candidi. La giovinezza vibrava in ogni menomo atto di lei, si sprigionava dagli occhi, dalla freschezza [213] lattea delle carni, dalla vivacità delle mosse. Poggiati i gomiti alla ringhiera (i suoi capelli pareva circondassero la fronte di un’aureola d’oro) ella guardava con intenso sguardo avvicinarsi la densa nube polverosa sullo stradone: tra la polvere qualcosa luccicava, si vedeva or sì, or no, il biancheggiamento dei kepy.

Ad un tratto le note allegre della fanfara risvegliarono gli echi addormentati della campagna giungendole all’orecchio come un saluto amico; e più il suono si faceva distinto più il nuvolo polveroso diventava denso e fitto come un gran velo: ora si sentiva la cornetta del sergente Del Vecchio che punteggiava di trilli e di variazioni un ritornello popolare.

Subito la cittaduzza addormentata si destò di soprassalto; una turba di monelli cenciosi sbucò sulla via, corse incontro al Reggimento schiamazzando; le botteghe si aprirono, uomini e donne uscirono sulle soglie sorridendo, accompagnando colla voce e col gesto il ritornello della fanfara che lanciava al aggio un’ondata di allegria sonora e chiassosa.

Allora Giulia si ritirò dal balcone e si nascose dietro la tendina di cui teneva sollevato un lembo. Sempre lo sfilare del Reggimento era uno spettacolo nuovo per lei quantunque conoscesse di vista tutti dal colonnello al mulattiere che conduceva la carretta da battaglione; dal o degli zappatori e dei trombettieri avrebbe potuto dire con precisione quanti chilometri di strada avevano fatto i soldati. E un senso misto di comione e di ammirazione la prendeva per quei poveri figliuoli che rientrando in città al suono della fanfara raddrizzavano il busto curvo sotto il peso dello zaino, irrigidivano il portamento, neri di sudore e di polvere, bruciati dal solleone d’agosto.

Eccoli, avano. Il colonnello tutto grigio colla sua bella barba a due punte, fieramente piantato sul magnifico morello che nitriva sentendo nell’aria l’odore acuto del fieno, [214] l’aiutante maggiore in 1ª giovane, bruno, che guardava sempre la sua finestra con un’insistenza che le dava ai nervi incutendole come un vago spavento: poi il maggiore del 1º battaglione, aristocratico fino alla punta dei capelli, che faceva caracollare la sua cavallina saura dalla magnifica criniera spiovente e Guido Ranucci, l’aiutante maggiore in seconda appena ventiduenne e già padre di un tesoruccio biondo di diciotto mesi, e gli altri, e gli altri: il piccolo capitano della 2ª coi suoi ufficiali piccoli come lui, il capitano della 3ª colla sua pancia enorme e il sorriso bonario, quello della 5ª indimenticabile figura donchisciottesca vicino a cui Balzelli della 6ª montato sopra un ronzino di 300 lire pareva il fido Sancho Pancha e tutti e due richiamavano alla mente le meravigliose visioni dell’immortale satira di Cervantes; poi il gruppo dei bagnati del 3º battaglione, i capitani De Regni e Boccadoro, il tenente Mauro Sacchi coll’inseparabile caramella incastrata nell’occhiaia, Don Ciccillo Spada, elegantissimo nella sua pinguedine incipiente, coi suoi guanti glacés a tre bottoni.

Sfilavano: Ferruccio Costa colla sua barbetta appuntita, tutta bianca di polvere, Rimoldi con la sua solita aria annoiata di tutto e di tutti, Annibale Catalogna, il tenentino minuscolo, l’ufficiale tascabile, fierissimo de’ suoi baffi spettinati alla parigina e delle sue quindicimila lire di rendita, e finalmente accanto al capitano della 12ª, lui, suo marito, Gustavo Torre che la cercava furtivamente cogli occhi dietro la tendina bianca, sorridendo. ò ancora il tenente medico dietro alla carretta da battaglione dove giaceva un soldato colpito da insolazione.

Le comari si affollarono curiosamente intorno alla carretta da battaglione per veder l’ammalato, per domandar notizie.

— Chi è? chi è?

— È il caporal Vernucchio della 4ª — rispose il mulattiere.

[215]

Marietta, la stiratrice, uscì sulla porta della bottega pallida come un cencio: aveva sentito che Vernucchio, il suo amante, stava male che lo riportavano in quartiere sulla carretta. Dio, che schianto! Avrebbe voluto salire anche lei su quella carretta fatale, consolarlo, guarirlo a furia di baci; ma la vecchia madre la chiamava con voce rabbiosa, le comari la guardavano ammiccando e Rosa Catena, la sua rivale, la sua nemica, rideva forte fissandola, di un riso che era un atroce insulto.

— Marietta, vuoi entrare, brutta pettegola?... — urlò la madre colla sua voce bestialmente rauca.

— Vengo, mammà, vengo!...

E rientrò in bottega: ma sulla porta si volse e le due rivali si scambiarono uno sguardo di sfida.

Rosa Catena rideva sempre del suo riso sguaiato di donnaccia volgare, coi gomiti sulle anche, in una posa da lottatrice che si prepara; Marietta la guardava con quella mossa di profondo disgusto che hanno le donne oneste per quelle che.... non lo sono più; poi sputò in terra e girò sui tacchi mormorando tra i denti una parola che parve uno schiaffo.

Dietro la tenda, terminato lo sfilare del reggimento, Giulia si godeva la scena: da un pezzo assisteva alla lotta di quelle due donne, lotta sorda, implacabile, che minacciava uno scioglimento tragico.

Tutte le sere caporal Vernucchio, un bellissimo giovanotto siciliano, veniva nella bottega sottostante e stava a guardare Marietta che stirava le cravatte dei soldati e i polsini dei sott’ufficiali: qualche volta pigliava la chitarra di Pinotto, il barbiere, e si accompagnava certi stornelli di laggiù belli e melanconici nella loro cadenza in minore. E allora mentre la giovane stiratrice dimenticava il ferro sui carboni e si fermava a sentirlo palpitante come una colomba, Rosa Catena, verde di bile, spalancava la finestre di faccia e si mostrava semidiscinta, facendo pompa delle sue belle braccia bianche e sode, cantando a voce spiegata [216] una di quelle volgari canzonacce da trivio che avrebbero fatto arrossire un carrettiere. Marietta sentiva l’insulto e correva a chiudere la porta in faccia a Rosa fulminandola con uno sguardo d’odio feroce, poi diceva a Vernucchio:

— Senti, non suonar più, raccontami qualche cosa....

Il suono cessava.

Ma Rosa Catena non si scoraggiava, si vestiva col suo bell’abito cittadino di un rosso fiammeggiante, si tingeva le gote e le labbra di carminio smorzando le tinte troppo accese con una cipria da due soldi al pacco, e andava a mettersi in sentinella sulla piazzetta dove le trombe alla sera suonavano la ritirata, aspettando pazientemente. Giulia e Gustavo, dalla terrazza, seguivano con interesse lo svolgersi di quel romanzetto popolare che minacciava di finire drammaticamente. Chi avrebbe vinto delle due? La buona e onesta Marietta, oppure Rosa, la sciagurata ragazza che non aveva più nulla da perdere?...

Giulia in cuor suo augurava la vittoria alla bella stiratrice, ma Gustavo scuoteva il capo malinconicamente, poco fiducioso della resistenza di caporal Vernucchio alle seduzioni del vizio.

Una sera mentre le trombe suonavano una mazurka dovuta alla inesauribile vena del sergente Del Vecchio, mentre Gustavo si metteva la sciabola disponendosi ad andare alla ritirata (vigeva allora il vecchio regolamento di Servizio Interno) Giulia vide uscire Vernucchio dalla bottega di Marietta e infilare a o concitato il gran viale dei platani. Dove andava? Aguzzò lo sguardo e le parve di vedere dietro al tronco di un platano un lembo di veste svolazzare.

— È lei — pensò tristamente.

Poco dopo mentre le trombe rientravano in quartiere, caporal Vernucchio riò di corsa sotto la sua finestra e le parve turbato; cinque minuti più tardi Rosa Catena dalla sua finestra spalancata cantava trionfalmente uno [217] stornello beffardo colla sua voce di contralto un po’ arrochita:

Fiorin fiorello

ogni cinque galline basta un gallo,

ma il gallo è tutto mio, core mio bello.

***

Lo squillo del camlo la richiamò improvvisamente al pensiero di Gustavo. Svelta come una gazzella corse alla porta per tender le braccia all’amato.

— Buon giorno, Gustavo, buon giorno! — disse saltandogli al collo.

— Buon giorno, cara! — rispose Gustavo ricambiandole il bacio con molta effusione; — come stai? ti sei annoiata eh?

— Tanto; ma mi impazientavo perchè non tornavi mai. Chi sa come sarai stanco! Dammi la sciabola. La roba per cambiarti è tutta pronta sul letto. Dio! quanta polvere!... Hai fame, caro?...

— Una fame da lupi, — disse lui ridendo, avviandosi alla camera nuziale, buttando il kepy e la sciarpa a Pasquale — una fame che non ci vedo.... Hai preparato qualche cosa di buono, almeno?

— Vedrai, vedrai: spogliati intanto; io vado in cucina a levar la pentola.

In pochi minuti Gustavo si cambiò, si lavò, riprese la sua bella fisonomia abituale.

Per casa portava una camicia col largo colletto arrovesciato che metteva in maggior evidenza la bellezza del suo collo muscoloso, che dava un’aria artisticamente bizzarra al suo collo dai lineamenti puri, alla sua fronte vasta e intelligente, alla sua bella testa ricciuta. Portava pure una giacchetta nera da borghese, un paio di pantaloni [218] larghi di traliccio cadenti su due pantofole nere ricamate in oro, regalo di Giulia nei tempi del loro fidanzamento.

La tavola era apparecchiata in una camera vastissima che serviva anche da salotto, da studio e da stanzetta di lavoro. Non erano ricchi i due sposini: vivevano modestamente in quella casetta appartata, coi magri proventi dello stipendio di tenente e colla rendita della piccola dote di Giulia: modestamente ma assai felici del loro amore tranquillo e intenso che durava da cinque anni, in una serenità non turbata mai da alcuna nube, che pareva dover essere invincibile come il destino ed eterna come il tempo. Erano sposi da un anno, ma per giungere alla presente e pur tanto precaria felicità, molti e grandi ostacoli aveva dovuto vincere il loro amore; ostacoli, difficoltà, contrattempi d’ogni natura, lunghe separazioni, lunghi silenzi, repulse che parevano irremovibili, resistenze che non dovevano cadere che dinanzi al loro amore ostinato e ribelle a tutte le considerazioni finanziarie e sociali. Di fronte a quel loro amore onnipotente, la legge della dote militare pareva una mostruosa ingiustizia, una inqualificabile tirannia. Ebbene, si sarebbero assoggettati a delle privazioni, avrebbero disciplinato i loro bisogni, si sarebbero accontentati di un’esistenza modesta tutta casa e lavoro, lontana dalla società, lontana dai rumori del mondo, solitaria e raccolta. Il cuore parlava alto, debellando vittoriosamente tutte le giuste obbiezioni sollevate dalla logica dei vecchi genitori; li aiutarono nella lotta le generose illusioni dei vent’anni; e quel tanto di romanticismo che ogni innamorato ha a sua disposizione per persuadere e commuovere gli altri. Il matrimonio religioso, se non in faccia agli uomini, era valevole in faccia a Dio e dinanzi alle proprie coscienze; poi un giorno sarebbe venuta provvidamente un’amnistia, un condono generale a tutti gli spostati, a tutte le spostate della grande società militare; forse in avvenire la dura [219] legge sarebbe stata modificata, abolita anche, chi poteva sapere?...

A vent’anni il futuro è così pieno di promesse, è così grande la fiducia nelle proprie forze! Il loro amore aveva vinto dopo quattro anni di lotta accanita, aveva superato tutti gli ostacoli, abbattute tutte le resistenze. I vecchi genitori di Giulia per non vedersela morire tra le braccia, commossi dalla costanza dei due giovani, impietositi dalle loro sofferenze, avevano finito per cedere benchè a malincuore. Fu preparato in fretta il corredo della sposa, furono ritirato dalla Banca quelle poche migliaia di lire che formavano tutta la dote di Giulia e fu fissato il giorno delle nozze, il giorno divino atteso dai fidanzati con tanta intensità di desiderio.

Pure quel giorno Gustavo fu, durante le modeste cerimonie religiose e familiari, dominato da uno strano malessere; c’era in quel mistero, del quale era giuocoforza circondarsi, un non so che di umiliante e di offensivo che lo pungeva, irritandolo. Chino dinanzi all’altare egli sentiva di commettere una cattiva azione, di condannare sè e la donna che amava ad una esistenza impossibile, falsa, illegale. La chiesa era buia, il cielo era buio: alla cerimonia assistevano soltanto i vecchi genitori di lei e quattro testimoni indifferenti. La sua vecchia madre che lo aveva assistito nei momenti più solenni della sua vita, che lo aveva accompagnato all’altare per la prima comunione e, adolescente, alla scuola di Modena, che gli aveva baciato e benedetto le fiammeggianti spalline di sottotenente, la sua vecchia e cara mamma che era pur stata la sua confidente, la sua dolce amica, non era là ad assisterlo in quel momento, non era là a piangere di commozione, a baciare sulla fronte la sposa di suo figlio. E suo padre mancava, suo padre, il venerando magistrato che gli aveva negato il consenso per non smentire con una colpevole annuenza l’intemerata illibatezza di tutta la sua vita trascorsa nell’ossequio alle leggi; mancavano [220] le sue dolci sorelle a quella festa del cuore, le sue sorelle buone il cui sorriso aveva tante volte disarmato le sue collere di adolescente, dissipato tante volte le tristezze e gli sconforti, illuminato tante volte la vita. E poi ci mancava quello che è l’orgoglio di tutti i fidanzati, la consacrazione ufficiale, che dà il diritto di gridare ad alta voce ed a fronte scoperta: «Questa donna è mia!» Mancava la sanzione civile che definisce invariabilmente i doveri di ognuno, che stabilisce legalmente la qualità maritale.

Aveva creduto di poter ar sopra a tutte le convenienze, di sfidare l’apparente tirannia delle leggi, aveva pensato che l’amore trionferebbe di tutti i pregiudizi, colmerebbe tutti i vuoti, sanerebbe tutte le ferite, lo difenderebbe contro l’assalto di tutte le miserie morali e ora appunto, nel momento supremo in cui i suoi voti più ardenti stavano per essere appagati, in cui il gran sogno della giovinezza diventava realtà, i vecchi pregiudizi, tante volte sdegnosamente respinti tornavano ad assalirlo colla segreta forza delle convinzioni succhiate col latte materno; ora appunto sorgevano a tormentarlo tutti i dubbi che aveva da gran tempo dileguato e le apprensioni che credeva distrutte e le fredde argomentazioni della logica che aveva così vittoriosamente debellate colle sublimi incoerenze della ione.

Il prete dai gradini dell’altare alzava la bianca mano benedicente; ma quell’uomo che compiva un rito era prezzolato, come il chierico che serviva la messa, come il cocchiere che li attendeva sul sacrato: ma le commoventi parole che il sacerdote aveva loro rivolte, centinaia di sposi da quello stesso inginocchiatoio le avevano ascoltate, centinaia di sposi le avrebbero ascoltate ancora. E poi la sua annuenza ad accettare la funzione religiosa era ancora per lui, non più credente, un sacrifizio fatto all’amore: il matrimonio dunque non aveva altro vincolo morale che quello della sua coscienza d’uomo d’onore, altra garanzia che il suo amore infinito. Questo poteva bastare per lui; ma per gli altri?

[221]

Come avesse indovinato la tempesta di pensieri che gli imperversava nel cuore e nel cervello, Giulia gli prese la mano, gliela strinse forte. Voleva dire quella stretta apionata: «Non ti addolorare per me; io sono l’amore, sono il sacrifizio. Se tu mi ami che mi importa del mondo? Se tu mi fai tua che mi importa della legge? Il tuo cuore onesto, il tuo amore immenso sono il mio mondo, la mia legge, la più sicura garanzia della mia felicità. Io saprò darti tutto quello che ti manca, tutto quello di cui l’anima tua irrequieta va in traccia: la forza, la fiducia, la calma, perchè ti amo tanto Gustavo!...»

Mai, mai da quel giorno benedetto i molesti pensieri erano tornati, maligne nubi a turbare la serenità del loro cielo azzurro. Vivevano in quella modesta casetta sentendosi così moralmente vicini, così compenetrati e spiritualmente fusi che ognuno di loro sentiva nelle proprie vene placidamente fluire la vita dell’altro, nel proprio cuore palpitare l’altro cuore, nella propria volontà la forza dell’altra, volontà. Gustavo dava a lei tutte le ore della giornata non reclamate dal servizio: erano confidenze intime, sfoghi affettuosi, letture fatte insieme ad alta voce, progetti d’avvenire; in quelle due camerette che erano tutto il loro mondo, la vita scorreva in una intimità deliziosa, tutta fatta di mille piccoli delicati riguardi, di mille gentilezze squisite, da cui l’amore usciva rafforzato, più spirituale e più casto.

Qualche volta Gustavo dipingeva mentre ella lo guardava fare lavorando all’uncinetto o rammendando la biancheria. avano sulla tela le fantasie bizzarre di lui, i suoi desiderii, i suoi ideali in tenere, delicatissime sfumature di colori. Nei giorni lieti, quando l’amore gli rideva nell’anima e nei profondi occhi sereni, erano paesaggi idilliaci con certi cieli di madreperla, con certi alberi di un verde allegro tenerissimo, con certe acque di una trasparenza luminosa. Allora egli era contento di sè e dell’opera sua e il gran fantasma dell’arte lo occupava [222] tutto, gli gonfiava l’anima del piacere divino della creazione intellettuale. ava la giornata intera al cavalletto sentendo la vicinanza dell’amata, provando un inesprimibile piacere a illuminare coll’immagine di lei tutte le ridenti fantasie che gli avano nel cervello e che si fissavano sulla tela. Dimenticava tutte le piccole e le grandi noie della sua vita militare, i pettegolezzi del quartiere, i rabbuffi del suo capitano, le fatiche delle istruzioni, il tedio delle istruzioni interne, le piccole miserie dell’economia domestica. Lavorando febbrilmente amava sentirsi are sui riccioli biondi la mano di lei morbida e bianca e provava una indistinta e squisitissima sensazione voluttuosa come se la carezza, spiritualizzandosi, gli asse sui nervi del cervello, discendesse alle fibre del cuore.

Quelle ore e quelle carezze gli lasciavano nell’anima una grande allegrezza che lo rendeva indulgente, gli mettevano nel sangue il vigore di una nuova giovinezza. Non era adunque quella la felicità?...

***

Pasquale Cifariello portò in tavola la terrina fumante e Giulia si sedette a tavola di fronte a Gustavo guardandolo mangiare col suo forte appetito di camminatore robusto.

La strada era ricaduta nella sua pigra sonnolenza pomeridiana: non una voce giungeva fino a loro, non il più lieve rumore nell’atmosfera pesante, all’infuori del monotono ronzìo delle mosche.

Nella stanza si diffondeva il vapor gastronomico della minestra.

— Ancora, Gustavo, prendine ancora....

— Grazie, Giulietta, basta, fa sudare.

— È vero, è molto caldo: siete andati lontano?

— Più in giù di Montelupo: una marcia lunghissima, [223] una manovra che pareva non dovesse finir mai, con un sole.... un sole che spaccava le pietre.

— Poveretti! — disse lei pietosamente.

— È venuto anche il Generale. Ti puoi figurare che razza di idrofobia ha sviluppato la sua presenza; non se ne imbroccava più una giusta: fioccavano rimproveri e cicchetti che era una delizia. Il tenente colonnello era addirittura arrabbiato come un cane e galoppava avanti e indietro dando ordini e contr’ordini con la sua voce di botolo ringhioso, pigliandosela più specialmente coi capitani. I capitani, naturalmente se la pigliavano con noi e con i soldati.

Avanti! Sotto quella catena!

Quel sostegno che cosa fa laggiù, per Dio! Tenente porti avanti quel sostegno!

La catena perchè non fa fuoco?

— Signor capitano, non si vede niente.

Non importa, fuoco lo stesso!

Insomma la confusione, le marce o le contromarce, gli ordini ed i contrordini sono durati più di tre ore; della manovra nessuno ha capito nulla, cominciando dai pezzi grossi che, nell’orgasmo, avevano perduta la testa, e il generale, sopra un’altura, si godeva la scena sorridendo mefistofelicamente, come è suo costume, e preparandosi mentalmente una di quelle sue critiche tutto miele nella forma a tutto pepe nella sostanza. La critica infatti è venuta subito dopo la manovra, arguta, fine e tagliente come la lama di un rasojo. Francamente non avrei voluto esser nei panni dei due comandanti di partito. Ad ogni osservazione indovinata, ad ogni rimprovero velato, ad ogni appunto ragionevole, noi ci toccavamo nel gomito sorridendo di una piccola gioia maligna, consolandoci che qualcuno fe le vendette di quella violenta raffica di rimproveri immeritati durata per tre lunghissime ore. Io intanto pensavo a te, a questa camera così fresca, a questa minestra così saporita, al nostro lettuccio morbido dove anderò a schiacciare un sonnellino tra poco, se tu [224] lo permetterai. Sempre l’idea che tu lavori per me e che mi aspetti, mi fa parer più bella e desiderabile, questa nostra casettina appartata.

— Come sei buono!... Ma anch’io ho pensato a te tutto il giorno, sai? E non vedevo l’ora che tu venissi anche perchè....

— Perchè?

— Perchè volevo che tu sapessi subito la grande novità....

— Che novità?... — disse Gustavo lasciando la forchetta sul piatto e sbarrando i grandi occhi curiosi in faccia a Giulia.

Giulia, soffusa in volto di un vivissimo incarnato, si alzò, corse ad abbracciare Gustavo e gli susurrò nell’orecchio una parola dolcissima che lo fece trasalire....

— Davvero, Giulia? Davvero? — esclamò felicissimo, facendosela sedere sulle ginocchia, baciandola apionatamente sui capelli, sugli occhi, sulla bocca; — se tu sapessi come sono felice!... Ma ne sei proprio sicura? E come te ne sei accorta?

Il dialogo continuò a voce bassissima, interrotto da esclamazioni, da sorrisi, da strette di mano. Sedevano ora vicinissimi e si parlavano nel viso, quasi bevendosi l’uno le parole dell’altro insieme all’alito.

Pasquale Cifariello, imibile, sparecchiava e metteva in tavola il tabacco e la pipa del tenente.

— Sicuro — diceva Giulia concitata, gli occhi scintillanti di una gioia divina. — Mi sono svegliata due ore dopo la tua partenza con un gran dolore alle reni, un peso ai fianchi, un malessere generale che mi teneva in uno stato di torpore. Allora ho pensato: Se fosse lui che viene? Ho mandato a chiamare la levatrice e ho chiuso gli occhi aspettando la sua venuta. Tu non saprai mai quello che è ato nella mia testa e nel mio cuore in quella eterna mezz’ora di attesa e nemmeno potrai immaginare la divina ondata di felicità che è ata su di [225] me quando donna Costanza mi ha detto le due sole parole: È vero!... Ah! ci son delle cose, vedi, che voialtri uomini non le capite per quanto siate buoni, per quanto siate affettuosi e fini!... Io mi disperavo già, io sentivo che tu mi amavi di meno....

— Oh! Giulia!...

— Lasciami dire.... Mi rimproveravo di averti tolto la tua libertà di scapolo, di aver sacrificato la tua fiorente e altera giovinezza. Non dicevo nulla ma lo pensavo e me ne dolevo: alla sera quando ti vedevo presso di me immerso nella lettura, di giorno quando seguivo coll’occhio le bizzarrie del tuo pennello, sentivo che qualche cosa di te mi sfuggiva, che io non bastavo completamente alla tua vita, che io non entravo per nulla nel tuo mondo intellettuale; sentivo che c’era nel tuo cervello e nel tuo cuore un angolo riposto dove l’immagine mia non entrava, un piccolo eppure immenso mondo di idee di cui tu mi vietavi la soglia.

Lo sentivo per quella specie di divinazione che nelle donne che amano tiene luogo del genio; ma ora non più: ora c’è qualcosa di vivente, di palpabile, di mio e di tuo che avvince assieme le nostre due esistenze, non è vero? Ora c’è tra noi due l’invincibile legame di una creaturina, di un piccolino biondo, di un angioletto che ci somiglierà, a cui splenderà negli occhi celesti il tuo ingegno....

— E sui riccioli biondi l’oro dei tuoi riccioli fini — disse Gustavo abbracciandola commosso da quella eloquenza materna, affettuosa e profonda.

Sì, Giulia aveva indovinato. Molte volte nella vita del suo pensiero egli non aveva accomunato l’immagine di lei ai suoi purissimi ideali d’arte e di gloria; molte volte non le aveva comunicato la tristezza dell’anima sua nelle ore in cui si metteva audacemente di fronte all’oscuro problema dell’avvenire.

Assai bene aveva fatto Giulia in poche parole la sintesi psicologica del loro amore e aveva capito che a quel loro [226] amore uniforme e tranquillo, perchè non più in lotta con nessuno, mancava il possente cemento della paternità, di quell’affetto sovraumano che solleva a smisurate altezze l’orgoglio dell’uomo, che circonda la donna di un’aureola di santità augusta, che ve la fa parere più desiderabile. Ma appunto per la colpa originale del loro amore, sbocciato, maturato e consacrato nel mistero, l’annunzio della paternità imminente gli ridestava nell’anima tutti i dubbii, tutti i sospetti, tutte le apprensioni, tutti i rimorsi che lo avevano assalito un anno prima dinanzi all’altare, mentre il prete alzava sul loro capo la mano benedicente.

Sempre lo spauracchio della legge che aveva avvelenato le purissime gioie degli sponsali, riappariva minacciosa nei momenti più solenni della sua vita; la legge che egli aveva deluso una volta lo colpiva ora implacabilmente nel capo di suo figlio, dei suoi figli venturi. Il piccolino veniva alla luce nel mistero senza gioia di canti, furtivamente come un intruso, senza nome nel mezzo agli altri uomini; già sulla piccola testa ricciuta pendeva la spada di Damocle della legge militare: e forse il piccino avrebbe avuto altri fratelli, altre sorelle. Da lui, spostato, una famiglia di spostati sarebbe venuta al mondo, anelante alla sua parte di luce e di sole. Come impedirlo?

— Non mi dici nulla? non sei contento? — disse Giulia cercandogli la risposta negli occhi, ansiosamente.

— Sì, cara, sono felice, felice!...

E se la prese tra le braccia soffocando l’amarezza dei suoi pensieri nella violenza delle carezze, in una fittissima pioggia di piccoli baci sul capo dell’amata, mentre come una luce improvvisa, un proponimento fortissimo gli si affermava nell’anima, mentre dinanzi agli occhi ava la visione luminosa di un avvenire lontano, più bello e più ridente. Il pensiero dell’arte che dà il pane dell’anima e quello del corpo, gli splendeva dinanzi fulgente e consolatore.

— Lavorerò! — si disse.


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INDICE 5sq69

Storia di una sciabola Pag. 9
Camere mobiliate 17
Il gran rapporto di capo d’anno 27
Per un giorno di consegna 37
Al distretto 45
Cambio di guarnigione 57
Il segreto di Rosario 65
Campo in montagna 79
Prima guardia 89
Fisiologia dell’attendente 97
Compagni di sventura 113
Picchetto armato 121
Pasqua in fortezza 131
Lettera di Natale 139
La caccia alla volpe 149
L’uomo volante 157
Irene 171
Piccola licenza 193
Zulù 201
Dura lex.... 211

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DELLO STESSO AUTORE:

CAPORAL BERRETTA, (esaurito).

STORIE DI CASERMA, (Novelle militari). VIII edizione, con illustrazioni di V. Corte e M. Basso. — Milano, A. Vallardi, editore. Cent. 50.

FANTI E CUORI, (Novelle militari) con illustrazioni originali di M. Basso. — Milano, A. Vallardi edit. Cent. 50.

IL ROMANZO DI GUIDO FORTI, III ediz. — Roma, E. Voghera editore. Cent. 60.

ALLA PROVA DEL FUOCO, (Romanzo). — Roma, E. Voghera editore. Cent. 60.

D’imminente pubblicazione:

IL ROMANZO DI MARIA, (Novelle mondane). — Roma, E. Voghera editore.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.